La storia del “sale che non sale” non è solo un progetto che parte da un ricercatore campano. Ne tantomeno una vicenda italiana. Non è, neppure, la solita storia dei cervelli in fuga. È la storia di un paese che stenta a decollare, ad accorgersi prima degli altri delle proprie risorse. È il paese dei ritardi impressionanti e dei paradossi senza fine
Era dicembre dello scorso anno, quando viene fuori la notizia che un gruppo di italiani residenti in Svizzera lavora allo sviluppo, su larga scala, di un composto naturale, capace di conferire agli alimenti lo stesso sapore del comune sale da cucina con una drastica riduzione del consumo di cloruro di sodio. A capo del progetto c’è Clemente Cipresso, trentadue anni, originario di Lusciano in provincia di Caserta, laureato in Fisiopatologia Cardiocircolatoria e Perfusione Cardiovascolare. Insieme a lui, Massimo Verdicchio, tecnologo alimentare di Lecce, e Elena Viterbo, farmacista originaria di Roma. I tre mettono a punto un’idea, che gli costa lunghe giornate di lavoro in laboratorio: alcune molecole hanno la capacità di conferire un sapore “salato” ai cibi, superiore quattro volte alle comuni spezie da cucina. L’idea, sull’onda del Made in Italy e dell’imminente Expò, rientra in Italia, transitando per la Confartigianato di Ancona, il concorso di idee innovative “Alimenta 2 Talent 2014” del Comune di Milano e della Fondazione Parco Tecnologico Padano e numerosi acceleratori di imprese del centro-nord Italia. “Purtroppo dopo mesi di trattative abbiamo deciso di ricominciare lì dove tutto era nato.
In Italia, i servizi di sostegno alle Start-Up si attivano quando praticamente il prodotto è già sugli scaffali del supermercato” ha commentato Clemente Cipresso responsabile del progetto. “In una regione del nord” continua, “o eri residente in loco, o dovevi pagare una consistente quota mensile per lo studio di fattibilità. Per non parlare di investitori che pretendevano di essere pagati “prima” della ricerca del capitale. Abbiamo vissuto il crollo di un sistema di accompagnamento all’impresa. Il più delle volte ci sembrava di entrare in un giro di usura, di prestiti, costi e persone senza scrupoli” ha proseguito Cipresso. Un duro colpo per la ricerca che, solo nell’ultimo anno, ha visto più di 90 mila cervelli abbandonare l’Italia. La perdita è immensa, sia dal punto di vista umano che economico. La storia del “sale che non sale” non è la solita vicenda italiana dei cervelli in fuga. È la storia “dal gusto un po’ amaro di cose perdute” come recita l’indimenticabile canzone di Gino Paoli. L’accordo Svizzero, infatti, prevede ora un piano triennale di studio di estratti vegetali per la realizzazione di esaltatori della sapidità impiegati in alcuni prodotti tipici della cucina elvetica. A stabilirlo un accordo tra un istituto di ricerca dell’area Nord-Est del Canton di Berna e un team di investitori Svizzeri.
Clemente Cipresso