«Il declino degli dei» di Gerardo Passannante – [email protected] – http://www.frammentiriflessi.wordpress.com
Tomo ottavo – Capitolo 491
Nel risalire in carrozza la mattina, Valeria portava con sé le perplessità della notte, anche se il paesaggio era più chiaro. Dissolta la nebbia, un manto bianco e soffice si stendeva sul terreno, morbido per gli occhi come una carezza. Il vento, calato, scuoteva appena le cime degli alberi e non gettava polvere sui volti. Il sole era pallido e chiaro, e si udivano passeri cinguettare nei cespugli e saltellanti beccare il suolo. E fu quella placida distesa a favorire la ripresa, che con naturalezza Felicita attaccò il suo racconto, quasi nello stesso punto in cui l’aveva lasciato.
“Avete dormito bene, belle signore? Che letti, eh? Che goduria! Ma questo ci tocca, che volete farci? Non volete sapere come andò a finire?”
“Certo,” disse Valeria, che in realtà avrebbe preferito restarsene in silenzio.
“Sì, sì. Come andò a finire?” si animò invece Prisca, più convinta.
“Andò a finire che il proconsole ci fece condurre in prigione,” proseguì Felicita, disattenta al fatto che Valeria fosse distratta, e che Prisca, nell’ascoltare, continuasse a guardare fuori dal finestrino, seguendo lo scorrere degli alberi, con un lento sorriso sulle labbra. “Aveva deciso di interrogarci ancora il giorno dopo, per sapere se avevamo cambiato opinione. E intanto aveva fatto scovare i miei genitori, i miei fratelli e mio marito.”
“Doveva essere clemente,” considerò Valeria. “In fondo stava cercando di risparmiarti sofferenze e torture, come so che sono accadute.”
“Clemente? dici. E la chiami clemenza quella di sbattermi sotto gli occhi tutto il codazzo della mia famiglia? Mio padre, mio marito!” e intanto, mentre Felicita così si esprimeva, inavvertitamente Valeria correva col pensiero al suo, di padre: a quel padre che avrebbe desiderato rivedere più di qualsiasi cosa. E analogamente Prisca, nel sentire parlare del marito, non poté impedirsi di rivedere la stessa persona che occupava la mente della figlia. Solo che, contrariamente a Valeria, l’immagine che le si presentava non era serena, ma assomigliava piuttosto a una fitta senza volto, come se una freccia fosse scoccata all’improvviso da lontano per conficcarle in petto nostalgia e timore. E si sentì gravare di un peso, mentre turbinava tra immagini sfuocate e pur vivide di facce erranti, di mani nella mano, e persino di abbracci torbidi, come guizzi di una persona morta, che senza dolore ma senza tepore sentiva colluttare per un chiarimento. E per questo sbatteva gli occhi e si dava dei colpetti di mano sulla fronte, come a scacciare un pensiero o a farlo erompere; finché si rivolse a Felicita in maniera convulsa.
“Marito? Che marito? Ma tuo marito non era morto?”
“Magari!” sghignazzò Felicita, schietta. “Magari se lo fosse portato via il diavolo! E invece no. Era vivo, e sano come un pesce. E venne là, a fare una scenata. E per farmi cambiare idea, si buttò faccia a terra. In tanti anni di matrimonio, non aveva ancora capito come ero fatta. Ma io gli dissi: vattene via, non mi tentare, tu traditore!”
“E bene facesti,” confermò Prisca. “Ché questo era. Un traditore. Ma tu l’amavi?” affermò e chiese in diretta successione, provocando un certo sconcerto in Felicita, comunque pronta alla risposta.
“All’inizio forse sì. Ma, poi, con tutto quello che mi ha fatto, se lo poteva scordare!”
“Proprio così!” commento Prisca, “se lo scordava… E non vuoi rivederlo?” chiese quindi a sorpresa.
“Sì, morto voglio vederlo! In Paradiso. Là forse gli perdono… Ma non volete sapere il seguito?”
“Che seguito? C’è ancora un seguito? Parli di Salona?”
“Che significa questo?” e Felicita si rivolse a Valeria, intuendo che Prisca non era del tutto presente.
“Mia madre è molto malata, e questo viaggio la sta straziando. Di notte non dorme e di giorno segue i suoi pensieri. Non farci caso, ti prego. Ma continua, se vuoi, il tuo racconto.”
“Ah, capisco… Sì, insomma, dicevo che quando vidi mio padre, altro che commuovermi! Mi infuriai come una belva. Presi un vaso che era là vicino, e gli chiesi: questo che vedi è un vaso o no? Certo che sì, rispose lui, e che cosa se no? Appunto, dissi io. Forse che si potrebbe chiamare con un altro nome? Che vuoi dire? chiese lui che non capiva. Dico che così come questo vaso non può essere diverso da quello che è, così io non posso essere diversa da quella che sono! Logico, no? Ma perché? Che sei tu? insisté lui, ancora più strambo. Non sei forse mia figlia? E dagli! risposi io. Io non sono figlia tua! E lui incominciò a piangere, come un bambino. Figlia, abbi compassione del padre tuo. Abbi compassione della madre tua, che ti ha nutrita. Abbi compassione dei tuoi fratelli e di questo infelicissimo tuo marito. Non ti intestardire, e ascolta il proconsole. Nessuno di noi potrà continuare a vivere dopo te, poiché nulla di simile avvenne nella mia famiglia.”
A quella supplica Valeria non poté frenare le lacrime. E dopo aver incrociato per un momento gli occhi contratti della madre che le sedeva di fronte, per nasconderle volse la testa al finestrino. Ma erano lacrime solo sue. Ché Felicità si lasciò sfuggire una sonora risata, che strappò a Prisca uno sgranare di orbite.
“Non aveva capito proprio niente, quel vecchio!” continuò poi. E forse non capì neanche quando gli dissi che, prima di essere figlia sua, ero figlia di Dio! E poi, vedendolo stordito, gli aggiunsi: ma lo capisci o no, che non posso essere diversa da quello che sono, perché sono cristiana?! Allora lui si mise a piangere, non so. Mi fece un poco pietà, e cercai di consolarlo. Non ti preoccupare, gli dissi, so quello che faccio, e presto sarò al cospetto di Dio e nella comunione dei santi, che sono la mia vera famiglia. Allora tutti sembrarono sconvolti. Mi presero le mani, e piangendo dicevano: abbi pietà di noi, vivi con noi. Abbi pietà, o figlia, dei miei capelli bianchi. Se sono degno di essere chiamato padre; se con queste mani ti ho sorretta fino al fiore dell’età; se ti ho preferita ai tuoi fratelli, non condannarmi al disonore. Rinuncia alla tua risoluzione, e non voler la rovina di noi tutti: nessuno di noi potrà più uscire per strada se ti accade qualcosa. Ecco perché diceva così. Parlava per sé. Era di sé che si preoccupava. Oh, ma io li respinsi. Via da me, lagnosi artefici di iniquità. Io non vi conosco: non posso ritenervi più buoni di Dio, che ha voluto guidarmi a questa gloria! E su quel palco avverrà ciò che Lui vorrà. Vattene! Porta via costoro, e non tornate più, gli dissi. Allora si allontanò, e io ringraziai Dio di avermi liberata della sua presenza e mi sentii pronta per il carcere.”
“Ma tu non eri incinta” si scandalizzò Valeria?!”
“Oh sì che lo ero. Mica potevo nascondere il pancione dell’ottavo mese!”
Gerardo Passannante
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