Delusione. Stanchezza. Inutilità del gesto. Senso di impotenza. Noia dell’attesa per un voto che sai ripetitivo e nulla più. Giornate perse nel marasma dei veti incrociati. Il voto segreto ha fatto più di una vittima anche nel passato profondo della prima repubblica. Chi ricorda Amintore Fanfani e Arnaldo Forlani? Erano due prestigiosi dirigenti della balena bianca democristiana. Furono ambedue, e in tempi diversi, a qualche passo dall’alto colle. Con in tasca, chissà?, il discorso di investitura. Uno scritto di bolsa retorica per dare solennità alla loro elezione a presidenti della repubblica italiana. Nulla e nessuno, li poteva fermare, se non i franchi tiratori. Personaggi squallidi. L’accattivante sorriso a nascondere il pugnale per quando verrà l’ora dell’intrigo e della vendetta.
Capitò anche a Prodi. Pensai: non sarà l’ultima scena a cui assisteremo nelle aule di Montecitorio o di palazzo Madama. Le ripetute fumate nere per l’elezione dei giudici della Corte Costituzionale e del Consiglio Superiore della Magistratura, ne sono una drammatica conferma. Che la festa continui, si potrebbe dire, se non fosse che, fuori dal palazzo, il popolo ha ben altri problemi di sopravvivenza da risolvere. Sta di fatto che i passati e gli attuali leader, quando si tratta di voto segreto, perdono la sfida. Sono temuti. Non sono amati. Fortuna vuole che, per l’occasione e nell’attesa dell’inutile voto, hai spesso la possibilità di fare nuove conoscenze. Intrattenere dialoghi con personalità di alto prestigio di un passato che ha fatto parte della tua storia politica e umana. Lassù, un po’ più in alto, da tempo seduto e assorto in non so quali pensieri, scorgo un vecchio senatore. In una mano afferra il bastone, nell’altra la fodera degli occhiali, inseparabili amici di chi è oramai in là negli anni.
Lo osservo, notando in lui un certo fastidio per quel deputato indagatore a lui sconosciuto. Mi avvicino. Buon giorno senatore! Forse, dico io, non sarebbe il caso di un bel processo alla tappa? La battuta lo fa sorridere. Da lì, può partire il dialogo con un grande maestro del giornalismo italiano: Sergio Zavoli, il socialista di Dio. I suoi processi alla tappa a fine corsa furono fulgidi esempi di scuola sportiva e promozione umana e sociale. Attraverso lo schermo irrompeva l’uomo sul suo cavallo d’acciaio. L’uomo con le sue paure. Il desiderio di riscatto. La forza della disperazione. Il sogno della gloria di tanti protagonisti delle due ruote di cui avevamo letto le gesta con l’avidità del ragazzo che cerca una sua verità nella leggendaria epopea omerica di Ettore e Achille. Raccontando la fatica, il sudore, il sentimento e la passione del ciclista contadino che violentava il pedale pensando all’arcigna terra natia in cui, già da infante, aveva appreso la cultura del sacrificio e del lavoro. Ho parlato di tutto, con il maestro.
Di Coppi e di Bartali. Di Gimondi e del grande Merckx. Di Franco Bitossi cuore matto. Di Anquetil, dalla borraccia in corsa riempita di Champagne sec. Dei giovani attratti dai sogni di gloria e dalla dolce mistura ( l’Epo ) che rallenta il cuore per l’effimera volata verso la vetta ornata dalla figura del grande Fausto. Si è parlato di sport e politica. Delle vicende italiane. Di come al tour de France ogni tappa diventa una festa di popolo e in ogni scuola dell’esagono i ragazzi studiano le gesta dei loro eroi per poter un giorno imitarli salendo le petraie dell’Alpe d’Huez e del Mont Ventoux. Abbiamo ricordato i maestri di cultura sportiva del passato: Gianni Brera, dalla penna sapiente e indagatrice. Attilio Camoriano e Gianni Ferretti, i cui messaggi, dall’onda radio antica, furono schizzi di un racconto consolante e ammaliatore. Già: non si vive di solo pane. Noto nei suoi occhi un non so che di commozione. Si sente un urlo, il solito pagliaccio intento a offendere solo se stesso. Non essere troppo triste, maestro. Hai gettato semi di sapienza. Hai diffuso barlumi di speranza. E, chissà?, ancora non è tutto perduto.