Bakhretdin Khakimov fu ferito gravemente alla testa e curato da un guaritore che gli trasmise il mestiere che ora lui stesso esercita nei dintorni di Herat
Negli Usa, dopo 40 anni, esiste, seppure ormai affievolita, nell’opinione pubblica la certezza o, quantomeno, il dubbio che 1650 soldati si trovino ancora in Vietnam, in Laos, nella Corea del Nord o anche in Cina, al punto che alla fine degli anni ’90 hanno avuto un successo strepitoso la serie di Rambo, l’ex agente speciale addestrato alla sopravvivenza in condizioni estreme che entra in Vietnam senza copertura alla ricerca di soldati americani che non rientrarono in Patria alla fine della guerra ma di cui non si avevano notizie certe sulla loro morte. I dispersi, appunto, che in inglese vengono definiti MIA, cioè missing in action.
Qualcosa di simile esiste in Russia, ma non a livello di opinione pubblica, bensì di comitato dei reduci dell’Afghanistan. Non se ne parla sulla stampa, non ci sono film, ma un comitato di privati, che non pensano affatto che i 265 soldati che mancano all’appello siano tutti morti. Il corrispondente di “dispersi”, cioè di missing in action, in russo si dice “propavshij bez vesti”: sono loro che i dirigenti del comitato reduci dall’Afghanistan cercano, con alterne fortune. Finora ne hanno trovati 29, di cui sette hanno deciso di rimanere lì, per motivi i più disparati: o si sono fatti (o rifatti) una vita, hanno legami, o perché non ne avevano in patria o anche perché si trovano bene in Afghanistan, per abitudine, per clima, per relazioni, per lavoro, per riconoscenza, o anche per forza, anche se questa è un’eventualità molto remota.
Ultimamente è riapparso un soldato uzbeko, mandato in servizio nell’Armata sovietica in Afghanistan nel 1979, Bakhretdin Khakimov, a quell’epoca ventenne. Non è esatto dire che è “riapparso”, è più esatto dire che è stato trovato dal vice presidente del comitato reduci dall’Afghanistan, Aleksandr Lavrentyev, che, insieme agli altri membri del comitato, si sono messi in testa di consacrare la loro vita a riportare in patria i “dispersi”.
Negli Usa, abbiamo detto, non è scomparsa dall’opinione pubblica – soprattutto dai familiari – l’idea che i loro cari si trovino ancora lì, vivi; in Russia non ci si pensa più, se non a livello privato. I motivi ci sono. Gli Usa hanno un alto concetto di sé e della loro missione liberatrice nel mondo, in Russia no. Gli Usa sono gli stessi di allora, la Russia no. Come si sa, in Afghanistan c’è andata l’Armata Rossa, l’armata non della Russia, ma dell’Unione Sovietica, che non c’è più, crollata sotto l’incalzare della perestroika di gorbacioviana memoria, e quando un Paese subisce un crollo di quel genere, cambia il modo di vedere le cose e la vita. Insomma, se non ci fosse il comitato di reduci dell’Afghanistan, per quelli che “rimasero indietro” nella ritirata non vi sarebbe nessun interesse.
Bakhretdin Khakimov, dunque, fu ferito gravemente alla testa in uno scontro a fuoco. Il plotone di cui faceva parte fu costretto a ritirarsi. Di lui si sono perse le tracce, il suo corpo non è mai più stato ritrovato. Poteva essere morto oppure essere in vita, da qualche parte. Aleksandr Lavrentyev lo ha scovato, vive in provincia di Herat, ha 53 anni, capisce il russo, ma lo parla poco, e di mestiere fa il guaritore. In Afghanistan lo chiamano “sceicco Abdullah”. Insomma, ha fatto carriera.
Si vede che Aleksandr Lavrentyev, una volta scovato un ex soldato, lo fotografa e lo cataloga, in modo che chi vuole può ottenere informazioni aggiornate sui suoi parenti dispersi. La foto di Bakhretdin Khakimov è stata notata da Sharof, il fratello di Bakhretdin, che non aveva perso le speranze di ritrovarlo. Ognuno può immaginare la gioia dei familiari, anche se Bakhretdin ricorda appena il nome della madre e di qualche suo familiare, che però non ha mai più cercato. L’incontro alla “Carramba, che sorpresa” avverrà prossimamente, senza i riflettori della tv, probabilmente.
Lo sceicco Abdullah, come detto, fu ferito gravemente alla testa. Il suo corpo fu ritrovato da un guaritore che lo prese con sé e lo curò come un padre. Se Bakhretdin è ancora vivo, vuol dire che l’arte del guaritore a qualcosa è servita, al punto che il “padre” gliela trasmise come mestiere, e qualcosa è riuscito ad imparare anche lui se la sua fama è nota nella provincia di Herat. Bakhretdin ha una lunga barba e va in giro con un turbante in testa, segno della sua identità afgana, ma usato anche per coprire la cicatrice alla testa. La ferita dovette essere molto grave se ancor oggi ha un braccio che gli trema in continuazione e un muscolo del viso che si contrae ritmicamente. Se Bakhretdin fosse rientrato in Russia, probabilmente lo avrebbero guarito completamente, ma se non lo ha fatto deve aver pesato la convinzione che i dispersi potevano essere considerati dei disertori, con tutte le conseguenze che ciò avrebbe potuto comportare nell’allora Unione Sovietica.
Comunque, tutto è bene quel che finisce bene. Questa storia dimostra che la tenacia porta a dei risultati a cui la rassegnazione non potrà mai arrivare, proprio perché la rassegnazione è priva di speranze.