Minivocabolario di Paolo Tebaldi
«Condizione di chi vive solo, in modo permanente o per un lungo periodo, ricercata per acquisire pace interiore o subita per assenza di affetti o appoggi materiali» (Tullio De Mauro, Grande Dizionario Italiano dell’Uso, UTET). Il primo pensiero che mi viene in mente con questa parola è la condizione di tanti anziani emigrati, spesso lontani dai figli, dai parenti e quindi dal calore della famiglia e dagli affetti più cari. Le associazioni del volontariato possono fare molto per loro: allievare se non gli acciacchi fisici le sofferenze dello spirito. Cancellare le sensazioni di abbandono, di emarginazione, di inutilità che i pensionati provano dopo una laboriosa vita spesa con grandi sacrifici per un futuro migliore; offrire spazi, strumenti, iniziative di formazione, culturali e ricreative. E’ necessario mettere a disposizione degli ultrasessantenni sedi confortevoli dove, utilizzando una sorta di laboratorio artigianale permanente, abbiano l’opportunità di riscoprire, reinventare capacità manuali, intellettuali, artistiche che pensavano di aver perduto. Lavori in gesso, in pietra, di legno, di ferro, manufatti di ceramica, con la cera, disegni, foto, pitture, racconti brevi, diari, poesie per sentirsi di nuovo protagonisti, per rielaborare le esperienze di un passato non dimenticato, per attualizzare la memoria storica confrontando un importante patrimonio di idee, abilità, valori con il mondo, diverso ma non ostile, delle nuove generazioni. E poi progetti organici, non discontinui, frammentari, con cicli di assemblee sulle questioni previdenziali, della salute, del recupero della memoria; con gite alla scoperta non solo dei panorami splendidi dell’Italia ma anche dei luoghi caratteristici della Svizzera; con corsi d’introduzione all’informatica, di ballo, di gastronomia; con proiezioni di film e dibattiti le cui tematiche interessino anche i giovani e si possa così mettere a confronto sensibilità, posizioni, convinzioni diverse ma non contrapposte.
Non è facile il compito di rendere accettabile, piacevole la stagione della terza età. Ma è un impegno che la società moderna, che sta progressivamente invecchiando, deve affrontare con mezzi e programmi strutturali, perché il futuro dell’umanità si gioca con la partecipazione attiva alla vita pubblica di tutti i cittadini, a prescindere dalla loro anagrafe, sia che abbiano i capelli bianchi e i volti segnati dal tempo, sia che ostentino portamenti atletici e mostrini facce glabre, lisce, senza rughe. Il vocabolo oggetto di queste note mi ha fatto venire in mente, anche, il titolo di un famoso romanzo, «Cent’anni di solitudine», 50 milioni di copie vendute, tradotto in 25 lingue e composto nel 1967 dal grande scrittore colombiano Gabriel Garcia Marquez, Premio Nobel, morto a 87 anni il 17 di questo mese. Ad eccezione della Bibbia, è l’autore più letto in tutte le epoche. I suoi libri, scritti in spagnolo, hanno avuto una popolarità non inferiore a quella del celebre don Chisciotte di Miguel de Cervantes. «Cronaca di una morte annunciata», «L’amore ai tempi del colera», «L’autunno del patriarca», gli hanno dato una fama planetaria ed é giustamente considerato uno dei massimi rappresentanti della letteratura contemporanea, maestro del «realismo magico iberico-americano». Giornalista magistrale, fiero della propria indipendenza e libertà, amico di Fidel Castro e a fianco delle rivoluzioni democratiche dell’America Latina, ha coniugato il suo mestiere di narratore con un rigoroso impegno civile e una intensa attività politica di opposizione alle dittature militari come il regime fascista di Pinochet in Cile. mE a proposito della solitudine, quella dell’America Latina, Marquez, in occasione del conferimento del premio Nobel a Stoccolma, nel dicembre del 1982, pronunciò un discorso di cui citiamo alcune frasi ancor oggi attuali: « Perché l’originalità che ci viene riconosciuta senza riserve nella letteratura ci viene negata (…) nei nostri difficilissimi tentativi di cambiamento sociale? (…) La violenza e il dolore smisurati della nostra storia sono il risultato di ingiustizie secolari e amarezze inenarrabili (…) E’ questa, amici, la dimensione della nostra solitudine (…). Noi inventori di racconti ci sentiamo in diritto di credere che non sia troppo tardi per iniziare a creare una nuova e impetuosa utopia della vita, dove sia davvero reale l’amore e sia possibile la felicità».
Credo che il modo migliore di omaggiare Gabrel Garcia Marquez sia quello di tuffarsi nelle sue pagine emozionanti, di conoscere il villaggio di Macondo, «venti case d’argilla e di canna selvatica», le vicende della famiglia Buendia, Florentino Ariza che riesce a dar corpo ad una passione incredibile dopo «cinquantatre anni, sette mesi e undici giorni, notti comprese». E ancora, incontrare Santiago Nasari, Plàcida Linero, Rosa Cabarcas, Sierva Maria de Todos los Angeles, i tanti personaggi visionari immersi in un’atmosfera irrazionale, paradossale, eppure intrisa di straordinaria, ammaliante realtà.
Sì, ricordare Marquez per (ri) trovare il piacere, la suggestione, la bellezza della lettura.