Per la politica estera americana la settimana scorsa doveva iniziare sotto i migliori auspici, ma non è stato così. Il vice presidente statunitense, Joe Biden, era volato in Medio Oriente con un programma molto preciso ed ambizioso: far ripartire i “negoziati indiretti” tra gli israeliani e i palestinesi, bloccati dopo 14 mesi di rottura.
Nella scorsa edizione abbiamo illustrato cosa sono questi negoziati indiretti e abbiamo detto che rappresentano l’unico strumento, per ora, in grado di riprendere il dialogo, seppure con le delegazioni palestinese e israeliana in due stanze diverse e con un intermediario a fare la spola.
Abbiamo anche precisato che la novità consiste nella Lega Araba che per la prima volta si spende in prima persona a favore di una soluzione che mira a “due popoli, due Stati”. Ebbene, Joe Biden era andato a dare la spinta alla preparazione di questi negoziati, ma è stato accolto nel peggiore dei modi. Già Berlusconi, in quanto “amico di Israele”, aveva posto un paletto ben netto quando aveva detto che Israele avrebbe dovuto rinunciare agli insediamenti nei Territori.
A suo tempo, avevamo parlato di un buon “assist” del premier italiano alla ripresa del dialogo e a quali condizioni, ma evidentemente non è servito a nulla. Appena atterrato, dunque, Joe Biden è stato accolto con una notizia “esplosiva” dal ministro dell’Interno Eli Yishai, esponente della destra conservatrice. Egli ha detto che aveva appena firmato il progetto di costruzione di 1600 nuovi alloggi a Ramat Shlomo, un quartiere religioso nella zona occupata di Gerusalemme Est.
L’annuncio ha provocato immediatamente il gelo nell’interlocutore americano che riferisce subito a Washington e infatti è da lì che partono le prime bordate contro la gaffe israeliana.
Il resto lo fa Biden stesso, quando, all’incontro con Abu Mazen, non può fare a meno di rivelare il suo “sconcerto” per l’annuncio che rischia di riportare all’indietro le lancette dell’orologio della discordia. Obama, a porte chiuse, avrebbe detto che ”così s’incendia il Medio Oriente”, ma le porte chiuse sono state volutamente socchiuse perché in Israele fosse chiaro il disastro commesso. Infatti, il giorno dopo fioccano le “scuse” ufficiali e le rassicurazioni in quanto si tratta di un progetto che per essere realizzato necessita di molti anni.
È stata messa la toppa, ma il danno è stato fatto ed è pesante. Certo, ora questo progetto – c’è chi dice che non si tratta di 1600 abitazioni, ma addirittura di 50 mila – sarà oggetto di scambio per la partenza dei negoziati. I palestinesi, ovviamente, hanno additato al mondo le responsabilità dello stallo e delle tensioni e questa volta hanno non una ma mille ragioni.
Dicevamo che la toppa è stata messa ma la ferita resta e peserà ancora a lungo. Il vice presidente Usa, di cui è nota la capacità di risolvere le situazioni più penose con una battuta di spirito, se n’è uscito dicendo: “A volte è proprio un vecchio amico d’Israele come me a dover far sentire forte la sua voce”. Dal punto di vista diplomatico la gaffe è stata spazzata via, i negoziati, però, dovranno attendere ancora prima di decollare.
L’altro tema di grande interesse sono state le elezioni in Iraq, ma prima di farvi cenno, restiamo negli Stati Uniti dove, dopo una durissima campagna di scontro politico tra Democratici e Repubblicani avvenuto fino alle elezioni, la nuova amministrazione, appena insediata, ha fatto di tutto per far dimenticare, con atti e prospettive, la vecchia incarnata da Bush. Ebbene, è passato un anno, ma l’ex inquilino della Casa Bianca torna a far parlare di sé in termini migliori rispetto agli ultimi venti mesi. Cosa è successo? È accaduto che non è facile risolvere i problemi con i semplici desideri, che la dura realtà si scontra con le buone intenzioni. Guantanamo e il simbolo negativo che gli era stato attribuito e che doveva essere subito eliminato (trattamento riservato ai terroristi prigionieri) è ancora lì e non è facile far passare il giudizio dal tribunale militare (come voleva Bush) a quello civile.
È vero poi che alcuni prigionieri sono stati affidati ad altri Stati, ma Guantanamo non si sa come risolverlo. Senza contare che alcuni prigionieri liberati sono tornati immediatamente a infoltire le file delle organizzazioni terroristiche.
Insomma, forse Bush non aveva tutti i torti a reagire con durezza. Inoltre Obama ha fatto ricorso a Bush, oltre che a Clinton, come testimonial degli aiuti americani ad Haiti e Bush stesso si è attivato nel processo di pace in Irlanda premendo sul leader conservatore britannico David Cameron. E poi due altri fatti. Uno è l’atteggiamento rispettoso e distante dalle polemiche tenuto da Bush in quest’ultimo anno, l’altro, appunto, le elezioni in Iraq. Si tratta delle seconde elezioni democratiche che provano che la sfida di Bush di esportare la democrazia là dove sarebbe stato impensabile è una realtà, seppure ancora precaria. Insomma, il vecchio inquilino non è più visto come il demonio, la riabilitazione non è ufficiale, ma emerge l’opinione secondo cui tra Bush e Obama ci sono differenze forti, ma le scelte di uno non sono finora state tanto diverse da quelle dell’altro.
Le elezioni in Iraq, appunto. La partecipazione è stata del 62%, meno della prima volta ma molto di più delle amministrative e soprattutto, malgrado ancora insanguinate dagli attentati, le elezioni si sono tenute ed hanno fatto registrare la partecipazione anche dei sunniti, che nelle prime a votare c’erano andati, ma solo per piazzare bombe.