Accanto all’ampiezza della rete stradale, mano mano che avanzava verso nord, Costantino apprezzava sempre più la lungimiranza dei suoi artefici, che avevano raggiunto esiti capaci, in effetti, di sfidare il tempo, per giungere fino a noi. Senza dire, per limitarsi all’Italia, delle grandi arterie, come l’Appia, l’Aurelia, la Flaminia, la Cassia o la Popilia, ancora oggi importanti vie di comunicazione seguono quegli antichi tracciati, che solo raramente sono stati scardinati. Nella maggior parte dei casi, invece, se ne è solo rifatto lo strato superiore, che nel tempo aveva perso l’omogeneità del fondo, senza che però ne fosse scomparso il compatto accostamento dei massi, che nei secoli non hanno ceduto di un palmo.
Il fatto è che quelle strade, e Costantino lo sperimentava sempre più, erano costruite con una competenza che non era mai venuta meno nei secoli, dando origine a opere il cui spessore stesso era garanzia di durata, grazie a una tecnica che i romani avevano probabilmente imparato dagli Etruschi, ed avevano migliorato a contatto con altre culture. In effetti, nel progettare una strada, dopo la valutazione degli ingegneri che stabilivano dove doveva passare, gli operatori piazzavano dei paletti e stabilivano la linea da mantenere, mediante uno strumento detto groma, con cui si tracciava una griglia sul piano. Quindi scavavano il terreno fino a raggiungere una profondità opportuna, che variava da terreno a terreno, per una larghezza che oscillava tra quattro e sei metri, in modo da permettere a due carri di incrociarsi agevolmente.
La fossa così scavata veniva riempita con diversi materiali, dalla terra alle pietra, dai mattoni alla brecciolina. Se presente nella zona, al primo strato si poneva la sabbia, e al secondo del pietrame di grandezza progressiva: dai frammenti più piccoli ai più grandi, per assicurare il defluire dell’acqua senza provocare pozze. Poi, per ultimo, si ponevano dei mattoni, incastrati in orizzontale e in verticale, in modo da assicurare un sostegno ottimale. Omologavano quindi la carreggiata con diversi centimetri di calcestruzzo grezzo, seguito da uno strato di grana fine, dentro cui incastravano grosse lastre di basalto, in modo che il centro fosse più alto dei bordi, per favorire lo scolo. E infine riempivano gli interstizi con rena compattata, coperta da cemento a proteggere la superficie dalla pioggia e dal gelo. Era stato grazie a quell’efficientissima opera edilizia, considerava Costantino, che Cesare, in tre giorni, dalla Gallia aveva potuto raggiungere Brindisi, per imbarcarsi verso l’Oriente; ed era ancora grazie ad essa che anche lui, nello stesso arco di tempo, avrebbe coperto lo spazio che lo separava da Eburacum.
A giudicare dei pochi tratti che aveva trovato dissestati, pensò che, per essere così efficienti, quelle strade richiedevano una costante opera di manutenzione, affidata alle province. Dove i censori, sia che battessero cassa presso privati, sia che confidassero su donazioni di personaggi abbienti, erano comunque tenuti a garantirne la viabilità, all’occorrenza rimettendoci di tasca propria. Anche se in questi casi, per rifarsi, volentieri introducevano tasse arbitrarie, soprattutto per i luoghi di transito obbligato, come i ponti o le porte delle città.
Le grandi arterie collegavano generalmente i centri più importanti, mentre i borghi, le cascine o i piccoli agglomerati, che si trovavano lontano dalla strada maestra, vi erano raccordati mediante stradine, spesso coperte solo da ghiaia e sterco di asino, in attesa della pavimentazione. Oltre a queste, altre viuzze sterrate popolavano il reticolato: di modo che la rete viaria copriva in larghissima parte l’impero, e nella sua massima espansione misurava ottantamila chilometri.
Per orientarsi in un territorio così vasto, diventava allora indispensabile qualche accorgimento, che i romani non avevano certo mancato di elaborare. Così, tutta una serie di indicazioni permettevano di conoscere esattamente i luoghi in cui ci si trovava e le distanze dalle prossime città. A ciò provvedevano le cosiddette “pietre miliari”: colonne circolari su base rettangolare, alte un metro e mezzo, con un diametro di cinquanta centimetri e un peso di due tonnellate. Erano esse ad indicare in miglia (circa un metro e mezzo) lo spazio tra una città e l’altra. Ma non solo. Alla loro base veniva scritto ancora il numero della strada, la distanza dal “miliario aureo” in bronzo, fatto porre da Augusto nel Foro romano, e dal quale si considerava che iniziassero tutte le strade. Su di esso era riportata la lista delle maggiori città dell’Impero, e sempre nel Foro era anche esposta la mappa generale delle vie consolari, di cui venivano realizzate e vendute copie e sottomappe con itinerari particolari.
Cavalcando instancabilmente, solo quando ebbe l’impressione di aver seminato abbastanza tracce della sua falsa intenzione, e si fu convinto di aver depistato abbastanza gli inseguitori, Costantino considerò che passare per Aquileia l’avrebbe troppo esposto al rischio di essere intercettato dalle truppe che gli avrebbe inviato contro Severo; e preferì nuovamente deviare. Puntò allora su Sirmium, con l’intenzione di portarsi sul Danubio. Non per imbarcarsi, e sentirsi in trappola su una bireme; ma solo per costeggiare il più possibile il grande fiume, con un itinerario sicuro verso Carnuntum; che gli lasciava però la possibilità, in caso di pericolo, di attraversarlo a nuoto per mettersi in salvo sulla sponda opposta. Questo suo nuovo tragitto, se non il più breve, era probabilmente più sicuro: e l’avrebbe portato da Carnuntum a Vindobona; e di là, attraverso Augusta Treverorum e Colonia Agrippina, fino a Gessoriacum. Dove, finalmente, si sarebbe imbarcato per la Britannia.
Le uniche esigenze a cui doveva badare, nella sua corsa, erano quelle di accostare qualche carro, nei tratti che gli parevano più sicuri, e chiedere da mangiare. E benché fosse frequente che briganti percorressero i sentieri, la sua franca espressione e la gentilezza con cui si accostava, lasciavano subito cadere ogni sospetto. Del resto il fatto che si trattasse di un solo soldato, spinto dalla fretta, induceva piuttosto a credere che fosse anello di una staffetta recante chissà quali importanti comunicati. Sicché, una volta inteso che quel cavaliere non aveva intenzioni malvagie, sollevati dal pensiero del pericolo scampato, volentieri gli occupanti davano qualcosa da mangiare. Ma questo non poteva bastare a Costantino: che, appena possibile, scrutava per un albergo, dove ottenere un pasto decente, riposare qualche ora comodamente, e cambiare cavallo. E fortuna che i romani, nel costruire le strade, avevano pensato anche a questo!