Dopo oltre trentacinque anni dall’ultimo storico incontro tra Ronald Reagan e Michael Gorbaciov, si ritrovano a Ginevra i presidenti americano e russo. Cambiano i tempi, parlano i fatti. Se ieri Biden ha volentieri accettato l’accoglienza delle autorità svizzere, come da protocollo diplomatico, oggi il presidente russo appena sceso dall’aereo si è invece subito diretto a Villa Grange, il blindatissimo luogo di incontro nel cuore della città.
Per riassumere la disponibilità dei due interlocutori è bastato osservare il rispettivo linguaggio del corpo: una rapida stretta di mano, un contatto visivo costante ma determinato, una cordialità ostentata quanto basta ma seguita da un rapido distanziarsi, ciascuno per offrire alla stampa mondiale la immagine di un leader protagonista senza compromessi mediatici oltre che politici.
Anche la attesa dell’incontro tra le due delegazioni è stata carica di significati: i due capi di stato erano seduti l’uno accanto all’altro, ma è stata la delegazione sovietica a far sentire la propria voce, sollecitando impercettibili cenni di assenso del presidente Putin, accompagnato dal ministro degli esteri Sergey Lavrov.
Sul lato opposto, Biden ed il segretario di Stato USA Antony Blinken, hanno invece assistito silenziosi ai preparativi ed atteso la chiusura delle porte, per un colloquio che è durato quasi tre ore.
E’ infine toccato alla conferenza stampa raccogliere le prime, attesissime, indicazioni dai due presidenti che hanno comunque preferito incontrare i media uno alla volta.
Ormai è chiaro che, archiviata l‘era Trump, le relazioni tra i due paesi cambiano rotta. Riassumendo: amici ma non troppo, ma almeno non più nemici come prima.
Concordi sui punti comuni, almeno formalmente: ma nessuno dei due presidenti per esempio ha invitato l’altro nella propria capitale.
Come d’abitudine nel gergo diplomatico per indicare che sono stati trovati elementi di comune dialogo, Putin ha esordito confermando che il dialogo con il presidente americano è stato costruttivo e cordiale, e di conseguenza ora gli ambasciatori dei paesi torneranno alle loro rispettive sedi di Washington e Mosca, probabilmente già ad inizio luglio, dopo un periodo in cui erano stati richiamati in patria a seguito di tensioni fra le due superpotenze.
L’agenda dei due leaders ha poi esaminato i temi caldi fra i rispettivi paesi. A proposito della Ucraina, con cui la Russia è in guerra per riannettere Crimea e Donbass, Putin ha annunciato una sua disponibilità di principio a concedere la adesione del paese alla Nato, la alleanza politico militare del blocco occidentale.
In tema di cyberattacchi e ransomware, la guerra informatica tra i due paesi che recentemente ha colpito giganti statunitensi come Colonial Pipeline, Acer, JBS e la National Basket Association-NBA, Putin ha respinto le accuse al mittente americano, ma ha riconosciuto che anche per il cyberspazio digitale è necessaria una cooperazione fra i due paesi.
In tema di diritti umani, il presidente sovietico si è prodotto in una scontata difesa d’ufficio, respingendo le accuse americane di essere un killer, un assassino, ma sorvolando sul tentato omicidio ai danni del dissidente Alexey Navalny.
Ma sarebbe riduttivo, è doveroso ammetterlo, esaminare il discorso del presidente russo come una serie di accuse e contro-accuse. Piuttosto, dicevamo, l’incontro di Ginevra segna l’inizio di una nuova stagione nelle relazioni transatlantiche. Entrambi i presidenti hanno infatti confermato di avere stabilito una agenda di quanto intendono risolvere insieme. Per esempio, oltre al cybercrimine, anche in tema di riduzione dell’arsenale nucleare, lo Strategic Arms Recuction-Start Treaty firmato nel 1991 da Bush e Gorbaciov, i due capi di stato hanno deciso di continuare le loro discussioni e prorogarle al 2026.
Amici ma non troppo anche in tema di reciproco scambio di prigionieri: l’argomento è riconosciuto importante e torna ad essere oggetto discussione fra i due paesi, ma senza ulteriori dettagli. Lo stesso dicasi in tema di superamento delle cosiddette red lines, l’immateriale confine politico tra dichiarare ed esagerare, che l’America ha chiesto alla controparte sovietica di non oltrepassare.
La medesima linea di condotta è stata mantenuta da Joe Biden: conciliante, pragmatico, ma allo stesso tempo deciso a difendere gli interessi nazionali e del blocco occidentale.
“Missione compiuta”, “I did what I came to do”, ha concluso Biden, avvertendo che l’America è determinata a reagire ad ogni prepotenza.
Insomma, la concordia diplomatica fra i due presidenti, ha avvertito Biden, continuerà a basarsi sui fatti e non sulle parole: “the proof of the pudding is in the heating”, quasi a ricordare alla comunità internazionale, cominciando da quella sovietica per proseguire a quella cinese, che anche la proverbiale prova dei fatti è un piatto da mangiare freddo, ma che in ogni caso deve sempre essere commestibile.
di Andrea Grandi