Il Paese ha bisogno di investimenti stranieri, di infrastrutture e di lavoro per uscire dalla miseria
La Birmania è ad un bivio: mettere un freno all’ingombrante vicino, la Cina, che considera il Paese solo ”un’opportunità commerciale”, secondo l’espressione del Premio Nobel Aung San Suu Kyi, e aprirsi all’Occidente, in primis agli Usa e all’Europa, o chiudere all’Occidente e ritornare al passato, cioè ad una condizione di sottosviluppo? La scelta non è di poco conto: significa accelerare il processo democratico o interromperlo in modo irreversibile. La settimana scorsa abbiamo riferito delle elezioni che si svolgeranno in aprile e che vedranno la partecipazione della leader della Lega nazionale democratica, a cui il regime ha aperto una linea di credito politico invitandola ad entrare in Parlamento e ad attuare un programma di sviluppo e di crescita economica e democratica. Abbiamo accennato al fatto che il regime non è unito nell’apertura democratica, c’è una parte chiusa alla novità, ma c’è un’altra parte, di cui fa parte il presidente in carica Thein Sein, disponibile a fare i passi necessari in avanti nella direzione della democrazia. Nessuno sa con precisione come andranno a finire le cose, ma questa è la sfida attuale nel Paese, dopo decenni di dittatura militare filocomunista cinese. Vediamo qual era la situazione fino ad alcuni mesi fa e quali sono le prospettive. Del regime oppressivo si sa da anni ed anni, da quando, nel 1962, il generale Ne Win con un colpo militare destituì il governo legittimo. Da allora la dittatura ha dominato in Birmania per 50 anni. Nel 1990 le elezioni furono vinte dal partito di Aung San Suu Kyi, ma furono annullate dai militari. L’anno scorso, appunto, la svolta di cui stiamo parlando. Il primo fatto fu la scoperta di un cargo nordcoreano che doveva trasportare carbone in Myanmar e invece trasportava missili. La cosa destò molti timori nelle cancellerie occidentali, perché un altro Paese si aggiungeva a quelli definiti ”canaglia”, come la Corea del Nord. In realtà, non si trattava di semplici missili, ma di qualcosa di più che aveva a che fare con un programma nucleare, seppure solo agli inizi. C’erano tre siti atomici già individuati, probabilmente prima che l’obiettivo fosse alle viste dovevano passare ancora molti anni, se non lustri, però la notizia colpì l’Occidente, che rafforzò le sanzioni già prese anni addietro. Nel dicembre scorso Hillary Clinton pose una condizione al suo viaggio in Birmania: che si rinunciasse al programma nucleare. Alcuni giorni dopo il presidente dichiarò pubblicamente che la Birmania ”non aveva ambizioni nucleari”.
Cosa era successo nel frattempo? Era successo quel che era sotto gli occhi di tutti e che era preoccupante: la Cina si faceva sempre più invadente nello sfruttamento delle risorse naturali della Birmania, fino a voler costruire una grandissima diga che spazzava via migliaia di abitanti dalle loro terre, rovinando paesaggi e terreni necessari alla popolazione locale. Stiamo parlando della diga di Myitsone, il cui progetto costava 3600 miliardi di dollari. Ebbene, alla protesta delle popolazioni locali si aggiunse quella del Premio Nobel e anche di altri personaggi al potere. Quella diga sarebbe stata un disastro per l’ambiente in Birmania: se ne accorse anche il presidente, che bloccò i lavori. La prima frattura in seno al governo è avvenuto proprio su quella diga, che significava anche dare un alt alla Cina di ”colonizzare” la Birmania. Il riavvicinamento, se così possiamo chiamarlo, tra i militari e il Premio Nobel si è verificato proprio sulla comune opposizione al progetto cinese. I cinesi, si sa, quando devono sfruttare miniere, gas, petrolio, costruiscono strade per il trasporto delle merci su camion e vanno dritti ai loro interessi, lasciando ai birmani (in questo caso) o i resti o il peggio. Il bivio dei birmani sta tutto qui: lasciar correre come in passato che il Paese sia terra di conquista e di sviluppo per gli altri e non per sé oppure darsi una diversa prospettiva, che non può essere che quella del dialogo e dei rapporti più stretti sul piano politico ed economico con l’Occidente. Che vuol dire sviluppo, crescita, benessere, ma anche democrazia e libertà. Si spiegano così le divisioni all’interno del governo e dei vertici militari ma anche che la scelta di campo è strategica. Finora la Birmania ha avuto solo miseria, con la svolta potrà ambire ad un cambiamento vero. Perché una cosa è certa, e i birmani lo sanno: il loro Paese è ricco e queste risorse possono e debbono servire alla Birmania e non alla Cina.