Sono da sempre stato fermamente convinto che le “regole” siano uno strumento indispensabile per garantire la buona convivenza all’interno di una società, che si tratti di una famiglia, una comunità locale o un’intera nazione. Le regole, a mio avviso, non sono solo dettami formali, ma sono il frutto dei valori di civiltà che l’umanità ha saputo affinare nel corso dei secoli, anche attraverso gli errori del passato. Ancora oggi, malgrado alcuni episodi possano portare a dubitare, sono convinto della loro fondamentale importanza.
Tuttavia, capita di imbattersi in eccezioni che sfidano queste convinzioni, casi che spingono a riflettere se tali regole siano effettivamente rispettate e applicate in modo equo e logico, oppure se necessitino di essere rivisitate.
Il problema che spesso sorge, purtroppo, è che la logica con cui vengono concepite e applicate queste regole non è sempre saggia o imparziale. È come se la nostra società costruisse, volutamente o involontariamente, delle “scappatoie” a queste stesse regole, compromettendone il valore e l’efficacia. Questa riflessione nasce da numerose sollecitazioni che ricevo da connazionali in difficoltà, italiani che vivono all’estero e che si sentono abbandonati o non adeguatamente tutelati. Questi eventi, alcuni dei quali particolarmente spiacevoli, mi portano a pormi domande importanti: esiste davvero, come penso da tempo, una mancanza di considerazione da parte dei governi di turno nei confronti degli italiani all’estero, o mi sto forse sbagliando? Oppure, alcune regole in circolazioni sono di facili interpretazioni confuse? Fatto sta che non riesco a darmi spiegazioni accettabili.
Quando ho assunto il ruolo di Consigliere nel Consiglio Generale degli Italiani all’Estero (CGIE), è come se avessi acquisito una nuova capacità di vedere più chiaramente i meccanismi che regolano i rapporti istituzionali. Ho compreso meglio il funzionamento delle strutture di rappresentanza e della diplomazia italiana all’estero, e ho cercato di mantenere sempre un profilo istituzionale, bilanciando la mia visione critica con la necessità di essere costruttivo. Credo fermamente che gli organi eletti come i Com.It.Es. e il CGIE abbiano una missione fondamentale: rappresentare gli italiani all’estero e tutelare i loro diritti. È quindi necessario aprire e mantenere un dialogo costante con le istituzioni governative e con la rete diplomatico-consolare. Solo attraverso una collaborazione sincera e attiva si possono trovare soluzioni condivise che soddisfino le esigenze di tutti, sia degli italiani residenti all’estero sia dello Stato italiano.
Le regole, tuttavia, per essere efficaci, non possono limitarsi a essere imposte. Devono essere frutto di azioni logiche, razionali e condivise. Richiedono rispetto, attenzione, ma soprattutto considerazione delle opinioni altrui. Ignorare le voci di chi rappresentiamo o di chi è direttamente coinvolto nelle questioni in discussione significa non solo fallire nel proprio compito, ma anche mettere in crisi il sistema di rappresentanza su cui si fonda il nostro ordinamento democratico.
L’insofferenza tra gli interlocutori
Nel corso della mia esperienza, ho sempre sostenuto che chiunque decida di intraprendere il compito di rappresentare qualcuno o qualcosa, debba farlo con il massimo senso di responsabilità e con una chiara visione del proprio ruolo. Chi rappresenta una comunità, specialmente una comunità numerosa e complessa come quella degli italiani all’estero, deve saper mettere da parte le proprie simpatie o antipatie personali. Altrimenti, il rischio è che il giudizio si deteriori, finendo per trasformarsi in quello che comunemente viene definito un abuso di potere.
Un altro problema che ho riscontrato è la tendenza, purtroppo diffusa, di svalutare le rappresentanze elette o le associazioni. Non è rilevante quanti voti abbiano ottenuto o quale sistema elettorale sia stato utilizzato; ciò che conta davvero è che siano stati eletti in maniera legale e trasparente. In virtù di questo, è fondamentale che venga loro riconosciuto il rispetto dovuto a chi ricopre una carica pubblica, indipendentemente dalle preferenze personali o dal contesto elettorale. Si tratta di un comportamento che, oltre a essere eticamente discutibile, è anche estremamente dannoso per la collettività. Presumere di poter modificare il corso della storia o di risolvere problemi complessi senza avere una chiara consapevolezza delle reali possibilità di successo è un atto di arroganza. In questi casi, la percentuale di riuscita è quasi sempre minima, se non inesistente.
Di fronte a questo contesto, fatto di incompetenze, indifferenza e dimenticanze, è evidente che a pagare le conseguenze siano sempre gli stessi: gli italiani all’estero. Questi nostri connazionali si trovano spesso schiacciati tra l’incapacità dello Stato di garantire loro diritti e servizi adeguati e l’obbligo di adempiere ai loro doveri di cittadini italiani. È una situazione inaccettabile, in cui si applicano due pesi e due misure. Da un lato, si richiede agli italiani all’estero di essere pienamente parte della comunità nazionale, ma dall’altro, non si forniscono loro i mezzi necessari per esercitare i loro diritti, creando una profonda disparità.
Una riflessione sui valori e sull’evoluzione del senso civico
Oggi, più che mai, sono altresì convinto che la disgregazione dei valori che regolano l’educazione e il “savoir vivre” stia minando le fondamenta stesse della nostra società. Questi valori, che dovrebbero essere alla base dell’evoluzione del senso civico di un popolo o di una comunità, vengono sempre più spesso ignorati o banalizzati, con il rischio di far precipitare tutto in un clima di frustrazione e disillusione.
A fronte di questa situazione, non posso che ribadire il mio dissenso. Non posso accettare che i valori fondamentali della convivenza civile vengano calpestati o ignorati. Sono fermamente convinto che “il presente non sia altro che un attimo del passato, e che il passato rappresenti la chiave per comprendere il futuro”. È dunque il presente che deve guidare il nostro cammino verso l’evoluzione, ma questo cammino possiamo percorrerlo solo insieme, uniti nella consapevolezza che tutti gli esseri umani, senza distinzione, hanno gli stessi diritti. In una comunità, o nel mondo intero, non c’è posto per chi agisce in modo egoistico, per i burattinai che manipolano gli altri, per i corrotti, i perfidi, gli irrispettosi o i maleducati.
Se rinunciamo al presupposto fondamentale del rispetto per l’uguaglianza o se tolleriamo l’indifferenza verso i più deboli, rischiamo inevitabilmente di tornare indietro, precipitando nuovamente nei tempi oscuri in cui le guerre devastavano intere nazioni e in cui centinaia di migliaia di persone perdevano la vita solo per dimostrare la forza di pochi.
Il coraggio come virtù necessaria
Oggi, più che mai, emerge la necessità di riscoprire e praticare il coraggio. Questa virtù, che sembra scomparsa dalle memorie di molti, ha un valore inestimabile. Il coraggio significa saper prendersi la responsabilità dei propri errori, ammetterli e cercare di rimediare. Significa avere la forza di essere se stessi, senza nascondersi dietro ipocrisie o mezze verità. Senza coraggio, non può esistere un vero progresso. “Il coraggio si manifesta anche nella capacità di affrontare e interpretare un disaccordo. Esprimere opinioni diverse non deve essere visto come un attacco personale, né come una critica diretta a qualcuno. Al contrario, la diversità di vedute è un’opportunità per arricchire il dialogo e stimolare il confronto, creando le condizioni per esaminare le questioni da prospettive differenti.
Questo approccio non solo permette di approfondire la comprensione di un problema, ma facilita anche la ricerca di soluzioni più efficaci e condivise, che possano rispondere in modo migliore alle esigenze dell’utenza o della comunità. In un contesto civile e rispettoso, il disaccordo diventa uno strumento di crescita collettiva, favorendo la cooperazione e la costruzione di un terreno comune su cui lavorare per il bene comune.
Esistono ancora, fortunatamente, luoghi nel mondo civilizzato dove prevale il “vivere nella speranza” e non il “vivere senza dignità”. Tuttavia, oltre ai meccanismi burocratici e alle responsabilità individuali, si osserva una crescente rassegnazione da parte dei cittadini. Questa rassegnazione, spesso alimentata da chi detiene il potere, è uno strumento che viene utilizzato per mantenere lo “status quo”, bloccando qualsiasi tentativo di miglioramento o cambiamento.
In conclusione, la vera sfida che ci attende non è solo quella di riformare le regole e i meccanismi di rappresentanza, ma anche quella di ritrovare il coraggio e la determinazione necessari per difendere i nostri diritti e costruire una società più giusta e inclusiva. Solo uniti possiamo affrontare con successo le sfide del presente e creare un futuro migliore per tutti.
Un’utopia? …
di Carmelo Vaccaro