Non c’è dubbio: l’indice di gradimento di Obama è sceso pericolosamente.
Le motivazioni vanno attribuite a scelte sbagliate e alla sua capacità di indecisione. Lasciamo stare le scelte sbagliate, che riguardano soprattutto la politica interna: quello che ci interessa è la capacità di indecisione, perché concerne la politica internazionale, che in questo momento si chiama Iraq e Afghanistan, cioè Medio Oriente.
Cosa sta succedendo in Afghanistan dopo che il generale Petraeus ha sostituito il generale McChrystal? Quest’ultimo è stato sostituito perché pubblicamente ha messo in discussione i poteri del presidente e questo non si fa, però, nel merito delle decisioni, non aveva torto. “La guerra non potrà essere vinta – diceva McChrystal – se non c’è un aumento di circa 40 mila soldati”. L’aumento sarà ottenuto, ma con molto ritardo. Poi i suoi giudizi su membri dell’amministrazione hanno provocato la sua sostituzione. Ora, Petraeus ha preso in mano la situazione, ma ha detto pubblicamente che la decisione di abbandonare l’Afghanistan entro il 2011 deve essere considerata un processo, non una data definitiva.
La dichiarazione è stata rilasciata dopo un colloquio a Washington con Obama. Prima aveva detto che il presidente “si aspetta i miei migliori consigli militari”. Ora, il generale non ha messo in discussione il potere del presidente, e questo lo pone al riparo di ciò che è toccato a McChrystal, ma è stato subito corretto da un comunicato della Casa Bianca che ha ribadito che “la data di luglio non è negoziabile”.
Sarà così? Ovviamente non lo possiamo sapere, ma affermarlo ai quattro venti è un errore madornale perché offre vantaggi ai talebani e ai terroristi.
La domanda è: saranno in grado gli afgani di governare il Paese oppure saranno i talebani a riprendere in mano il potere? C’è la crisi economica, è vero, esiste la politica del dialogo, d’accordo, ma quali sono i risultati? Se gli Usa abbandonano il campo, se l’unico risultato è il ritiro, a quale scopo si è andati in Afghanistan? Il presidente americano sembra seguire le orme di un altro presidente, Jmmy Carter, anche lui democratico, la cui presidenza è tra le più sbiadite della storia americana.
Ma c’è di più. In questi giorni, gli Usa hanno completato il ritiro di altri 14 mila soldati dall’Iraq. Ora ne sono rimasti 50 mila, ma solo a scopo di addestramento.
Anche loro, comunque, abbandoneranno il Paese entro la fine di dicembre del 2011. La decisione fu assunta a suo tempo da Bush, ma fu subito confermata da Obama appena s’insediò, come aveva annunciato nel corso della campagna elettorale.
Anche qui la domanda è d’obbligo: cosa succederà in Iraq dopo il ritiro definitivo degli americani? A questa domanda aveva risposto il generale Zebari, alto ufficiale dell’esercito forte di 440 mila poliziotti che, insieme ai 220 mila soldati, formano la forza militare irachena. Secondo Zebari, l’esercito e la polizia potrebbero essere in grado di far fronte all’eversione interna, ma sarebbero impreparati a fronteggiare un’emergenza esterna.
Ecco una delle dichiarazioni rilasciate in un’intervista al Corriere della Sera da Hoshyar Zebari, ministro degli Esteri dell’Iraq e cugino dell’alto ufficiale citato: “Si sta creando un pericoloso vuoto di potere in Iraq. Se ne vanno gli americani, arrivano iraniani, turchi, siriani e tanti altri.
Si moltiplicano le interferenze destabilizzanti, ognuno dei nostri vicini vuole dire la sua. È un problema gigantesco per il nostro futuro, e non solo per il nostro.
Ho cercato di comunicarlo tante volte negli ultimi tempi a Washington: se perdono l’Afghanistan è un Paese solo, se perdono l’Iraq perdono il Medio Oriente. Ma non credo che abbiano capito”.
Poi l’accusa, pesante, anche perché non viene da un avversario interno, ma dal ministro degli Esteri di un Paese che all’inizio non voleva la presenza degli americani e che ora, invece, non ne può fare a meno se vuole avere un futuro: “Bush era un decisionista: decideva e agiva. Anche a costo di commettere errori, anche se sapeva di essere impopolare. Con Obama, invece, le iniziative si fermano a metà strada. Non procede nel negoziato israelo-palestinese, non in Libano, va male in Afghanistan e Pakistan. Non vedo successi, nonostante il grande impegno”.
È esattamente ciò che gli rimprovera il popolo americano, che ha voltato le spalle ad un presidente che aveva eletto con grande entusiasmo e che lo ha deluso.
Mai come ora si avverte l’esigenza di una presenza forte degli Usa nelle aree nevralgiche del pianeta, da cui dipende il futuro di pace del mondo o un futuro di destabilizzazione.
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