Tra pochi giorni gli italiani saranno chiamati a votare su un referendum che prevede, tra le altre misure, l’abbreviazione del periodo minimo di residenza per ottenere la cittadinanza da dieci a cinque anni. Una proposta venduta come “atto di civiltà”, ma che nella sostanza rappresenta un atto di resa culturale, e l’ennesima conferma di uno Stato incapace di costruire appartenenza.
La cittadinanza svizzera: un modello opposto Vivo da anni in Svizzera. Qui non esiste il concetto di “cittadinanza automatica” come in Italia. Il percorso è lungo, articolato e rigoroso: 10 anni di residenza legale, almeno 3 negli ultimi 5, ma con obblighi precisi anche nel cantone (spesso almeno 5 anni) e nel comune (di norma 2-5 anni). Cambiare comune o cantone durante il percorso fa spesso ripartire il conteggio, allungando i tempi. Occorrono conoscenza della lingua, integrazione locale, assenza di aiuti sociali e colloqui con le autorità. La cittadinanza è un riconoscimento, non un automatismo.
Il caos italiano e l’illusione della cittadinanza facile In Italia, invece, il sistema è già fallimentare: manca ogni controllo serio all’ingresso, manca un legame tra cittadinanza e vita reale. Gli stranieri arrivano per disperazione, spesso senza un progetto, e diventano cittadini italiani solo formalmente. Le regole sono deboli, le verifiche inconsistenti. Una cittadinanza concessa dopo appena cinque anni rischia di istituzionalizzare il precariato identitario: italiani solo sul documento, non nella coscienza.
Il caso ristorazione: specchio di un Paese che espelle sé stesso Prendiamo la ristorazione, settore simbolico. Gli italiani non rifiutano questi lavori: li fanno altrove, dove sono pagati meglio e rispettati di più. In Italia vengono sostituiti da migranti intra-UE, che accettano condizioni che per un italiano sono insostenibili. Ma non per restare: per passare. Per ottenere un passaporto da usare in Germania, Svizzera o Francia.
Passaporto italiano: da simbolo a scorciatoia Ed è qui il paradosso: il passaporto italiano è diventato un lasciapassare geopolitico, non un simbolo di appartenenza. Il marocchino in Belgio dice: “Sono marocchino con passaporto italiano.” L’albanese in Svizzera: “Sono stato furbo, ho preso il passaporto italiano.” Nessuno di loro si definisce “italiano”, perché nessuno lo è. Non parlano la lingua, non conoscono la cultura, non hanno vissuto l’Italia, ma l’hanno attraversata. Eppure ne sono cittadini. Nominali, non reali.
Chi emigra dall’Italia, invece, si trova scavalcato da questi “nuovi italiani” che, con un documento preso in cinque anni e senza radici, occupano spazi e diritti costruiti da chi ha faticato, studiato, pagato.
Non etnia, ma cultura: la posta in gioco vera Il problema non è etnico, ma culturale. Non si tratta di respingere l’altro, ma di chiedere rispetto. Chi vuole diventare cittadino italiano deve: vivere davvero in Italia, lavorare e contribuire, conoscere lingua e istituzioni, rispettare la nostra storia e il nostro ordine civile. Altrimenti non è cittadinanza: è un cedimento strutturale dello Stato.
Una sinistra smarrita, responsabile e complice E qui emerge la gravissima responsabilità della sinistra italiana. Questa proposta referendaria non nasce da ragionevolezza, ma da panico ideologico. La sinistra, dopo aver perso ogni radicamento sociale, propone di distribuire cittadinanze come forma di autogiustificazione morale. Ma lo Stato non si tiene in piedi con le emozioni.
Le regole esistono per lo Stato, e devono valere per tutti. Ma in Italia regna l’anarchia: troppe città caotiche, troppe sacche di criminalità tollerata, troppe zone grigie dove lo Stato ha abdicato. La sinistra ha rinunciato a proteggere lo Stato “dalla testa ai piedi”, e ha preferito lasciarlo sgretolare in nome di una tolleranza malata.
Una destra finta: identità senza cultura E la destra? Non è meglio. La destra italiana non è una destra vera. È un riflesso di pancia, identitario nei simboli ma incapace di costruire una visione. Difende una “etnia italiana” che non esiste, si aggrappa al sangue invece che alla cultura. Ha smesso di leggere, di scrivere, di proporre. Non è conservatrice, non è patriottica: è pubblicitaria, reattiva, inconsistente.
In questa confusione, il dibattito sulla cittadinanza è degenerato: non si tratta più di formare italiani, ma di moltiplicarli meccanicamente. E nessuno ha il coraggio di dire che così si svende l’Italia.
Considerazioni finali viste dall’estero Dopo vent’anni fuori dall’Italia, si impara a guardare il Paese con uno sguardo insieme affettuoso e spietato. E ciò che si vede, oggi, è un Paese che non sa più proteggere la propria italianità, perché ha smarrito il coraggio di definirla.
Il nodo non è genetico — quello lasciamolo ai fantasmi del Novecento — ma profondamente culturale. Eppure, in troppi fingono che “italiano” sia chiunque ne faccia richiesta, come se bastasse la permanenza legale a trasformare uno status giuridico in una coscienza collettiva.
Allora forse bisognerebbe ripartire da una domanda semplice, ma seria:
Vuoi lasciare il tuo Paese perché riconosci nella nostra società qualcosa che non trovi nella tua? Qualità nella scuola, ordine giuridico, libertà di parola, senso del dovere, rispetto dei luoghi e delle persone?
Benissimo. Benvenuto. Ma a una condizione limpida: ti atterrai alle nostre regole, alla nostra civiltà, al nostro modo di intendere la libertà e la convivenza. Anche quando non corrisponderanno alle tue abitudini. Anche quando richiederanno disciplina, silenzio, ordine.
Perché l’Italia — se vuole continuare a essere una nazione — deve tornare a farsi rispettare. Non solo nel nome, ma nelle regole e nei comportamenti e prima di tutto deve offrire lavoro di qualità ai suoi residenti e fregiarsi di quel surplus occupazionale che le consente di condividere il lavoro creato con nuovi soggetti che vogliono far parte della nostra millenaria storia, accettandone le regole fondamentali. E chi desidera farne parte, deve volerle abbracciare, non solo utilizzare.
Francesco Torellini
Ugl Estero
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