La settimana scorsa avevamo appena finito di scrivere che la calma era tornata tra i due maggiori esponenti del centrodestra – dopo i contrasti interni al Pdl circa il ddl sul processo breve, le voci su possibili elezioni anticipate e la successiva dichiarazione del premier secondo cui la legislatura sarebbe arrivata fino alla fine della sua naturale scadenza – che la polemica è ripartita, segno che l’accordo raggiunto era solo di facciata.
Ad irritare Gianfranco Fini non era stato tanto il disegno di legge sul processo breve, di cui egli aveva riconosciuto la necessità, tra l’altro imposta dall’Europa e da una ragionevole durata del processo cui i cittadini hanno diritto, quanto che tra i reati esclusi ci fosse quello della clandestinità, voluto dalla Lega.
Ad irritare Berlusconi era stato invece l’atteggiamento del presidente della Camera, sordo all’offensiva dei magistrati che stavano e stanno per accerchiare il premier con accuse tanto infamanti quanto fantasiose, come quella secondo cui sarebbe il mandante delle stragi del 1993 (tre attentati a opere d’arte e chiese), il contraente di un patto di mafia con i boss Graviano e il mandante dell’attentato a Maurizio Costanzo, che non ci crede. A questo punto, per evitare di finire su una eterna graticola a rischio di un progressivo logoramento, il premier ha riunito il coordinamento del Pdl per farsi dare il mandato a seguire la linea della fermezza sul ddl sul processo breve.
La linea della fermezza prevede che il governo è intenzionato ad andare avanti nell’iter che lo porterà all’approvazione, ma che nel corso del dibattito potranno esserci emendamenti. Uno di questi è che il reato di clandestinità sarà incluso nella prescrizione se non si rispetteranno i tempi (due anni). In sostanza, il governo ritiene che non ci sono margini d’intesa con gli oppositori e che quindi la riforma della giustizia, di cui il processo breve è uno degli aspetti, deve andare avanti, anche a costo di polemiche e di scontro.
Così facendo, il premier ha mandato un chiaro messaggio al cofondatore del Pdl. Gli ha detto: il momento è grave per gli attacchi della magistratura decisa a tutti i costi a costringermi alle dimissioni, dunque, bisogna fare quadrato. Gianfranco Fini, invece, ha tirato avanti per la sua strada sia criticando e facendo criticare dai suoi sostenitori il ddl, sia sostenendo con forza e a voce alta il diritto di voto agli immigrati e il diritto di chiedere la cittadinanza dopo soli cinque anni di soggiorno in Italia.
A questo proposito, è d’obbligo precisare che gli argomenti sollevati da Fini sono seri, ma anche delicati. Che gli immigrati debbano essere accolti ed integrati, non ci piove; che l’integrazione debba andare di pari passo con la stabilizzazione, questo è un fatto, come è un fatto che l’integrazione non si ottiene con un tocco di bacchetta magica. C’è bisogno di tempo e soprattutto di un “percorso” d’integrazione, cioè un periodo adeguato di permanenza, la conoscenza dell’italiano, la volontà personale d’integrarsi e di aderire ad un sistema di valori condivisi.
Porre, come fa Fini, questi temi in maniera ultimativa è stato interpretato dal premier come un segno evidente di distinzione se non di aperta rottura.
D’altra parte, non è un mistero che ufficialmente il presidente della Camera ribadisce il valore civile e politico dei suoi argomenti, ma nelle conversazioni ristrette ha fatto dichiarazioni pesanti sul premier, tipo: “Berlusconi è morto. Mor-to. Lo capite? A maggio non sarà questo l’assetto politico”. Insomma, i commentatori ritengono che nel Pdl si sia aperta la successione a Berlusconi e che Fini la voglia accelerare dando una mano agli avversari del premier e ai magistrati. Di qui l’ultimatum di Berlusconi agli oppositori interni: o si segue la linea concordata dalla maggioranza o si è fuori.
Che poi la magistratura lo voglia costringere alla resa, di questo Berlusconi – e non solo lui nel Pdl – è arciconvinto. Dopo la sua “discesa in campo” i magistrati di Palermo lo indagarono per mafia sulla base di generiche dichiarazioni di un pentito. Undici anni fa, l’indagine si concluse con l’archiviazione perché non fu trovata una sola prova.
Adesso, undici anni dopo, i magistrati di Firenze e di Palermo sono tornati all’attacco, dopo che il pentito Gaspare Spatuzza (quello che sciolse un bambino nell’acido) ha detto nel giugno del 2009: “Sì, abbiamo chiuso tutto. Per noi a Roma là si è chiuso tutto. Là il colpo di grazia, quindi a sto’ punto le persone serie gli avevano dato a lui quello che lui andava cercando”. Ecco, l’accusa di patto con i boss mafiosi si basa su questa frase e sul nome di Berlusconi, fatto dopo dieci anni di silenzio e con i pm che periodicamente lo invogliavano a fare quel nome (almeno questo risulta dai verbali pubblicati sulla stampa).
Inutile dire che lo scontro governo-magistrati ha una posta in gioco enorme, al punto da spingere il presidente della Repubblica a lanciare un monito alle istituzioni. Lo scontro è tale da far passare in second’ordine la lotta senza esclusione di colpi per le candidature alle regionali della primavera prossima nell’uno e nell’altro campo. A destra, dove la Lega probabilmente l’ha spuntata in Piemonte e in Veneto; a sinistra, dove in Puglia D’Alema indica come candidato il sindaco di Bari, Emiliano, e Nichi Vendola non accetta l’imposizione di farsi da parte.