Il baricentro della politica internazionale la settimana scorsa si è spostato nell’Est asiatico e nel Giappone, dove, dopo 54 anni di potere quasi ininterrotto, il partito liberaldemocratico di Taro Aso è stato sonoramente sconfitto dal partito democratico di Yukio Hatoyama, che ora ha la maggioranza assoluta in Parlamento.
Cosa cambierà in Giappone? Il leader vincitore ha promesso che i rapporti con gli Usa non saranno messi in discussione. Tuttavia, ha anche precisato che da una parte non ci sarà quello stretto rapporto che esisteva tra l’America e la vecchia amministrazione e che, dall’altra, il Giappone deve guardare all’Asia.
Ce n’è abbastanza per far drizzare le orecchie al Presidente americano e contemporaneamente alla Cina. Quest’ultima segue con attenzione il progetto – che è anche quello di Pechino – di voler realizzare una moneta unica asiatica, sulla scia di quanto è successo in Europa con l’euro, ma sa che l’eventuale moneta unica non sarà una politica unica.
La Cina, potenza in crescita, non sopporterebbe mai di fare il partner, tanto più con il Giappone, da sempre guardato con diffidenza in quanto nemico in passato e pericoloso concorrente adesso. Malgrado i due popoli siano dell’avviso che le relazioni tra i due Paesi debbano essere rafforzate (la Cina nel 2007 ha superato gli Usa come partner commerciale del Giappone), permangono forti diffidenze di giudizi sull’altro Paese. A parte il ricordo dell’occupazione imperiale, pesa nel giudizio cinese il carattere conservatore del partito democratico. Anche il partito liberaldemocratico sconfitto era conservatore, ma con la Cina aveva saputo instaurare un rapporto e un linguaggio condivisi, mentre i cinesi non sanno ancora decifrare i nuovi amministratori nel cui partito convivono estrema sinistra ed estrema destra. Soprattutto pesano i diversi interessi dei due Paesi.
Il Giappone teme un’espansione territoriale e politica, specie della Corea del Nord, la Cina teme che la sua leadership in Asia sia messa in discussione. È troppo presto per parlare di prospettive, quello che ora conta è che le difficoltà sono ben chiare ai due partner. Il leader democratico giapponese Yukio Hatoyama ha parlato, infatti, di una “diplomazia dell’amicizia, non dei valori”. Ecco, prima di parlare di nuove prospettive, è questo il percorso che si cerca di seguire.
Intanto, ritorna sulle prime pagine dei giornali l’Iran, e non per buone notizie. La proposta di nominare ministro della Difesa Ahmad Vahidi, un ricercato con mandato di cattura internazionale da parte dell’Interpol perché accusato di strage in Argentina, la dice lunga sui propositi di Teheran, che, come sappiamo, alterna il bastone e la carota nei rapporti con gli altri Paesi e, soprattutto, con le istituzioni internazionali. Mentre esiste la dichiarazione del Presidente di voler accettare il controllo dell’Onu sui siti nucleari, quello stesso presidente si fa in quattro per nominare ministro un ricercato, colui che rappresenta la punta più avanzata della lotta contro Israele. Ma qui Israele diventa solo un pretesto, la realtà è che l’Iran, ad un passo dalla bomba nucleare, vuole guadagnare tempo. Sapendo che la comunità internazionale non accetterà di buon grado questa nomina, che porrà seri problemi allorquando il ministro dovrà andare all’estero (sarebbe un ministro ricercato dalla polizia, anche se con lasciapassare diplomatico), il ministro diventerà una questione nazionale, cioè la bussola nazionalista del regime che si presenterà al popolo come “perseguitato”.
Il nome poi del neoministro è una specie di minaccia, come dire: il programma nucleare sarà realizzato con o senza l’accordo internazionale. Con l’Iran la politica della mano tesa di Obama sembra essere clamorosamente battuta. L’altra novità del nuovo governo di Ahmadinejad è la nomina a ministro della sanità di una donna, Marzieh Vahid Dastjerdi, che quanto ad idee oltranziste non è seconda al presidente. La neo ministra, infatti, è fautrice della segregazione tra sessi.
Con quest’Iran non è difficile immaginare che la comunità internazionale avrà solo rogne, e speriamo che siano solo diplomatiche.
Infine, ma la riportiamo solo perché la notizia ha del comico, c’è la richiesta di Gheddafi all’Onu di smembrare la Svizzera, assegnando ciascuna delle aree linguistiche alla Francia, all’Italia e alla Germania.
Il presidente dittatore libico s’è legato al dito l’arresto di suo figlio e della moglie di lui a Ginevra per maltrattamenti ai domestici. L’arresto di Hannibal Gheddafi da parte della polizia ginevrina fu seguito da una ritorsione da parte del dittatore libico contro i due domestici.
Malgrado le umilianti scuse del presidente della Confederazione Hans Rudolf Merz, Gheddafi, dopo quello chiuso (o socchiuso) con l’Italia, tiene aperto il contenzioso con la Svizzera assumendo atteggiamenti da capo clan che forse tra i Paesi arabi sono temuti, ma che nel consesso internazionale appaiono comici e ridicoli.
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