Mentre il nord subiva la costante pressione dei Pitti della Caledonia, il sud era perennemente soggetto ad invasioni galliche, le coste occidentali venivano saccheggiate dai predatori irlandesi, e quelle orientali restavano facilmente accessibili alle scorrerie dei Sassoni, provenienti dal delta del Reno, dalla Danimarca o dalla Germania.
Insomma, anche la Britannia di Costanzo si rivelava, a causa di una configurazione etnica diversificata e bellicosa, una provincia piuttosto riottosa; come già aveva avuto modo di sperimentare a suo tempo Cesare, che non era riuscito a conquistarla, limitandosi appena a una pretestuosa spoliazione di bottino, per meglio giustificare davanti al senato le sue esose campagne. Solo sotto Claudio, e non senza sacrificio, i romani erano riusciti a stanziarvisi, sfruttando la rivalità tra i diversi gruppi, e gli amichevoli scambi con le tribù galliche, ormai pienamente inserite nel contesto imperiale, e che col loro transito di merci e cultura tra le due sponde della Manica avevano contribuito a facilitare lo sbarco.
Da allora oltre due secoli e mezzo erano trascorsi; e la Legio VI, di cui disponeva Costanzo in quel di Eburacum, restava l’unica delle quattro di una volta; e con essa l’augusto doveva fronteggiare la resistenza di un’isola dove la romanizzazione non era avvenuta tra le masse rurali, anche se era quasi totale tra i ceti superiori e nelle principali aree cittadine. Anche qui, come in altre province, i romani avevano adottato la politica di assimilazione già più volte sperimentata. Non avevano fondato la propria supremazia sullo sterminio o l’importazione di coloni; ma vi avevano esercitato la consueta perizia stradale, puntando a latinizzare commercianti e classi dirigenti. Avevano allettato i capi con la cultura e con l’opulenza del prestigio, investendoli d’autorità nell’amministrazione pubblica; avevano imposto uno spostamento forzato ai bretoni, soliti abitare in villaggi fortificati sui promontori, per premunirsi contro eventuali ribellioni; e avevano collegato le città con un efficiente sistema stradale. Ma malgrado queste precauzioni, il dominio sull’isola non era mai stato totale. Gli sforzi profusi per conquistare e mantenere la Britannia sotto controllo non avevano domato del tutto l’indocile provincia. Le aree del Galles, della Cornovaglia e del nord-ovest si trovavano scarsamente romanizzate: e ed erano esposte alla pressione di invasori come gli Scoti, o di popolazioni bretoni e celtiche, come i Briganti o i Pitti.
Di queste invasioni, che davano ancora filo da torcere al padre, Costantino aveva vaghe notizie, aureolate da una nebbia di leggenda, che gli narravano di isole fortificate, di pietre monumentali, in una mescolanza di iscrizioni incomprensibili. E ne traeva un’oscura minaccia dalle forme incise sui manufatti metallici o d’osso, simboli di animali, arpe, pettini, mezzelune, borchie curvilinee e disegni a spirale. Pur senza decifrare quei segni, comprendendo però che il naturalismo simbolico doveva albergare allegorie reali ed ideali ad un tempo, con un pizzico di superstizione riandava col pensiero alla scomparsa della Nona Legio tra le algide brume della Caledonia.
Strana a suggestiva la sorte di questa legione, su cui amava talvolta indugiare, subendone l’inorridita seduzione. Già operativa sotto Cesare, voluta da Augusto nello scontro con Marco Antonio, passata poi in Spagna, e quindi di volta in volta sul Reno, in Pannonia e nella provincia africana, nel 43 essa aveva partecipato all’invasione dell’isola decisa da Claudio. Dopo una pesante disfatta subita durante la ribellione di Budicca, aveva costruito una fortezza a Eburacum: da dove era poi partita per reprimere una rivolta tra i Caledoni: e da allora se ne erano persi il nome e la scia.
Nessuno sapeva come un gruppo di sbandati avesse potuto infliggere una così radicale sconfitta a un esercito ben addestrato ed armato; e chi ne raccontava rabbrividiva ancora alla propria voce. E tanto ne durava l’eco popolare, che proprio al seguito di quella disfatta l’imperatore Adriano aveva condotto sull’isola la Legio VI, quella stessa che ancora combatteva sotto Costanzo; e al fine di rimediare agli errori e garantire la stabilità, aveva fatto costruire il famoso Vallum che porta il suo nome, per tenere gli invasori fuori dal territorio occupato, e sottrarre a velleitari ribelli interni la speranza di ricevere rinforzi dal nord.
Da questo momento, dopo l’effimera espansione del più nordico limes di Antonino, le culture su entrambi i lati del muro si erano sviluppate a ritmi e in modi diversi. E se l’inesplicabile sorte della Nona aveva persuaso all’edificazione di un confine permanente, gettando il lontano seme per la cesura tra i regni di Inghilterra e di Scozia, la leggenda secondo cui l’ufficiale Marcus Aquila si era spinto oltre il Vallum per scoprire la verità su suo padre, e trovare l’aquila di bronzo, lo stendardo di cui si erano perse le tracce, esercitava anche su Costantino un superstizioso fascino, che lo riempiva di tensione e inquietudine. Lo stesso che ha prodotto, anche ai nostri giorni, tutta una letteratura fantastica, acronica o pseudostorica, dalla quale prendiamo decisamente le distanze: noi che, nell’investigare il passato, ripieghiamo sugli scarni e meno fantasiosi reperti che la vogliono prima trasferita nei Paesi Bassi, e quindi in Oriente, dove smise di esistere sotto il regno di Marco Aurelio.
Nel muoversi per le vie di Londinium, verso il palazzo del governatore, dove avrebbe incontrato l’ignoto personaggio di fiducia che gli era stato inviato dal padre, Costantino sapeva che sotto il regno di Adriano molti soldati erano stati uccisi, e aveva appreso dalla Historia Augusta che “i Britanni non potevano essere tenuti sotto controllo”. Sapeva delle scorrerie che continuavano a prodursi anche dopo che Costanzo era sbarcato personalmente nell’isola. Sapeva che la pressione delle etnie locali non era mai cessata; e che dopo la morte di C<rausio, e per inettitudine di Alletto, i Sassoni tendevano a una effettiva invasione. Non ignorava nemmeno che i fertili territori del meridione, scarsamente fortificati, erano facile preda agli invasori, che si spingevano nell’entroterra risalendo i fiumi, o sfruttando le comode strade romane; e conosceva i diversi ceppi di origine germanica che minacciavano l’isola, e le zone che privilegiavano gli Angli, i Sassoni o gli Iuti.
E sapeva ancora, Costantino, che le scorribande di questi popoli, disparate nei modi e negli obiettivi, rinviavano alla comune strategia di far seguire sistematicamente alle prime ondate (incaricate di razziare e incendiare le città, massacrando gli abitanti e costringendoli alla fuga), schiere di coloni, ad occupare le terre già razziate. E sapeva che coloro che sopravvivevano ai massacri, se intendevano sottrarsi alla schiavitù, o migravano verso il Galles e la Cornovaglia; oppure, superando la Manica, riparavano sulle coste della Gallia. Ciò che invece non sapeva è che raramente i nuovi siti coincidevano con i precedenti, perché gli incursori preferivano insediarsi presso i fiumi, usando dei romani solo le strade. E ancor meno sapeva che questo era solo l’inizio della fine di quella provincia: che doveva concludersi circa un secolo dopo, quando i romani l’abbandoneranno definitivamente, lasciando alle popolazioni celtiche e bretoni l’impari compito di contrastare le inarrestabili catapulte anglosassoni.