C’erano una volta le préfiche, le donne che gli antichi romani pagavano per piangere ai funerali, una tradizione che forse si conserva ancora oggi in qualche paesino del profondo Sud. Di sicuro esiste ancora nella Corea del Nord, dove centinaia e centinaia di persone – per lo più militari o funzionari di Stato travestiti da impiegati e da gente normale, sicuramente donne di partito – si sono esibite in pianti dirotti alla morte del dittatore Kim Jong-Il. Se tra quella gente c’erano donne del popolo, questa forse è stata la loro occasione per guadagnare qualcosa, sempre che non siano state costrette dal regime. Niente di nuovo in Corea del Nord: se ne va un Kim Jong-Il e sale al trono un Kim Jong-Un, ventisettenne cresciuto alla scuola crudele del padre. Le immagini di fine d’anno ci hanno consegnato un tragico attentato in Siria, sicuramente ad opera del regime stesso per giustificare la sanguinosa repressione degli ultimi mesi ed altri attentati in Iraq: sia nell’uno che nell’altro Paese il 2012 non si annuncia sereno. Probabilmente in Siria si arriverà alla resa dei conti tra il regime e le opposizioni, e non sarà una serenata. Dall’Iraq, invece, sono partiti tutti i soldati americani e una nota musica è ricominciata subito a suonare: attentati dappertutto nel Paese. Per la neodemocrazia irachena la strada si fa molto accidentata. In fondo, l’unico fatto positivo della guerra dichiarata dagli Usa a Saddam Hussein era proprio il germoglio della democrazia in questo Paese che non l’aveva mai conosciuta. Dopo due elezioni democratiche, l’esperimento, ad avviso degli esperti internazionali, presto potrebbe essere cancellato dalla ripresa in grande stile della guerra tra sunniti, in minoranza ma orfani di Saddam Hussein, e gli sciiti, in maggioranza e con lo sguardo rivolto al vicino Iran, desideroso di allargarsi e di controllare quella che è l’area più ricca di petrolio al mondo. Se così sarà, per l’Occidente e la sua economia si preannunciano seri guai. Dunque, la storia fa due passi in avanti e due (quando va bene) indietro, a giudicare dall’ultima di una serie di tappe di crisi tra Iran e Usa e in genere l’Occidente. Presto saranno attuate le sanzioni nei confronti dell’Iran e della sua marcia verso le armi nucleari, marcia finora rallentata ma non bloccata, nemmeno dalle esplosioni avvenute in novembre in alcuni siti e dalle “strane” morti di cui sono stati vittime qualche generale e alcuni scienziati iraniani. La risposta alle sanzioni è stata diramata il 28 dicembre, con l’annuncio del blocco del traffico navale attraverso lo stretto di Hormuz. La mossa iraniana non è nuova ma è sempre incisiva, perché per quello stretto passano le petroliere dirette verso più direzioni e che portano ossigeno alle economie di vari Paesi. Bloccare le navi, vuol dire dare un calcio a quei Paesi che sono in maggioranza alleati degli Usa. Gli iraniani, dunque, colpiscono gli alleati per colpire in realtà gli Usa e la sua rete di relazioni internazionali. La mossa, però, può rischiare di essere un boomerang per gli ayatollah, perché i nemici vicini (Arabia Saudita) hanno rassicurato tutti aprendo ed aumentando la produzione e facendo diminuire i prezzi. Insomma, la storia va avanti attraverso mosse e contromosse in un equilibrio che in alcune zone diventa sempre più precario e minaccioso. La consolazione è che in fondo è sempre stato così e, mutatis mutandis, sempre lo sarà. redazione @lapagina.ch