A un mese e mezzo dalle elezioni il Pd si conferma primo partito, Monti non sfonda, mentre il Pdl rimonta e si attesta sul 20%
Alla fine della prima settimana di gennaio e a un mese e mezzo dalle elezioni si sta profilando lo scenario che alcune settimane fa avevamo ipotizzato. E’ chiaro che tutto può cambiare, specie se si considera che un 5% in più o in meno può determinare uno sbocco al posto di un altro, però la tendenza politica è questa.
Cominciamo dal Pd che dai sondaggi e dalle stime viene dato al 30 per cento circa. Quando si dice Pd, s’intende che al partito viene attribuita questa percentuale, ma che alla coalizione bisogna dare di più, cioè i voti che potranno ottenere il Psi (circa l’1%) e Sel (circa 3-4%). Dalla somma si ottiene un risultato di circa il 35%. Non è la maggioranza assoluta, anzi, è al di sotto sicuramente di un livello di guardia da coalizione tranquilla, ma non è nemmeno poco, anche perché a questa cifra si possono associare quelle di altri partiti e formazioni che potranno aggiungersi cammin facendo. C’è da osservare, comunque, che come è possibile aumentare questa percentuale, così è possibile anche perderla. I rischi potranno venire soprattutto da parlamentari ed esponenti importanti che potrebbero fare il salto verso il centro. Finora già si è verificato. L’esponente più illustre è stato il giusvalorista Pietro Ichino, l’uomo che da anni sostiene la liberalizzazione del mercato del lavoro senza i protezionismi eccessivi e spesso controproducenti per la flessibilità e l’occupazione che c’erano prima della riforma e che ci sono anche dopo la riforma Fornero-Monti. Oltre ad Ichino, dunque, altri ancora potrebbero fare il passo, specie i delusi che hanno votato Renzi e che sono stati in larga parte estromessi dalle condidature. In tal caso ne risentirebbe anche il risultato finale della coalizione che fa perno sul Pd. Il quale, in ogni caso, ha la vittoria in tasca in quanto prima coalizione che, secondo la legge, ha diritto ad un premio di maggioranza fino al 55% dei voti, cioè con un totale di deputati di 340 unità.
Diverso il discorso per il Senato. Qui il premio di maggioranza viene attribuito a livello regionale, dunque non basta raggiungere la più alta percentuale, bisogna conquistarla in quelle regioni popolose che permetteranno alla coalizione o al partito più grande di guadagnare premi di maggioranza nelle singole regioni. Facciamo un esempio: se si ha la maggioranza in Val d’Aosta, dove i senatori sono due, il premio di maggioranza non è determinante; se si ottiene la maggioranza in Lombardia o in Sicilia, il premio di maggioranza è notevole e tale da far ottenere la maggioranza o la minoranza al Senato. Le altre coalizioni, infatti, lo sanno bene e cercano di essere determinanti al Senato, visto che alla Camera non ce la faranno mai.
Il Pd, comunque, se non ottiene la maggioranza anche al Senato, è esposto ai condizionamenti della lista Monti. Già Casini aveva dichiarato che avrebbe fatto l’alleanza dopo le elezioni con il Pd. E’ probabile che l’alleanza sarà fatta anche ora che a guidare la coalizione di centro è Monti. Il centro, però, potrebbe chiedere la presidenza del Consiglio per Monti, pena il ricorso a nuove elezioni. La battaglia è aperta.
E passiamo proprio a Monti, che al Senato sponsorizza una lista civile intitolata, appunto, a lui. E’ una lista dove non entreranno i big politici, salvo alcune deroghe (magari Casini e Fini); è fatta di candidati non parlamentari. La lista Monti al Senato potrebbe raggiungere in alcune regioni un risultato onorevole, tale da portare ad un quorum da negoziare con il Pd.
Il dato politico-elettorale, comunque, è che l’Udc-Fli-Italia Futura di Montezemolo è data al 13-15%. Al Senato Monti in quanto tale riuscirebbe a conquistare circa il 9%, sommabile al 4% di Casini, all’1% di Fini e al 3-4% di Italia Futura di Montezemolo. Per essere più chiari: l’effetto Monti c’è ma è deludente. Aspirare a fare il presidente del Consiglio con il 15% si poteva fare al tempo del pentapartito degli anni Ottanta, ma non ora. Al massimo Monti e la sua lista ed alleati potranno assicurare il piede di centro – in questo caso un solido piede – all’alleanza con il Pd, lasciando in questo caso campo libero all’opposizione di Berlusconi o del centrodestra.
E veniamo al Pdl, dato nei sondaggi attorno al 19%. In rimonta, dunque, dopo il ritorno di Berlusconi alla sua guida, ma pur sempre su una percentuale che è superiore al centro ma di molto inferiore al Pd. E’ possibile che il 19% del Pdl possa incrementarsi ulteriormente, perché alcune formazioni si sono staccate dal Pdl (tipo Fratelli d’Italia di La Russa, Crosetto e Meloni, ma anche altre), ma aggiungeranno le loro percentuali al Pdl stesso. Si tratta di percentuali minime, l’1% circa di Fratelli d’Italia, l’1-2% de La Destra di Storace, ma che potrebbero portare il Pdl e suoi satelliti al 21-23%.
L’altra considerazione è che se questo risultato sarà confermato, si avvererà la nostra ipotesi: Berlusconi sa che non potrà vincere, ma sa che candidandosi lui ha ricompattato il 20% del suo partito, cioè offrirà una base politico-elettorale al suo successore che avrà 5 anni di tempo per rilanciare il centrodestra.
Due notazioni. Il movimento 5 stelle sta cedendo terreno, magari conserverà un 12-13%, ma sarà inconsistente dal punto di vista parlamentare. Non si costruisce un grande movimento solo sulla protesta, espellendo la gente dicendo che la democrazia è lui solo e mandando a quel paese chi non è d’accordo con lui.
La Lega. Se va alle elezioni da sola in Lombardia e alle politiche, perderà sia le politiche che la Lombardia e probabilmente anche il Veneto e il Piemonte. Avrà un 6%, ma solo da appendere al petto dei leghisti. Se si allea con il Pdl, la coalizione potrebbe vincere in Lombardia con Maroni e sperare di contare molto al Senato.