Mentre il diretto colpevole dell’attentato a Donald Trump durante il comizio elettorale a Butler (Pennsylvania) è stato intercettato e ucciso dai cecchini della sicurezza, gli sforzi dei commentatori sono tutti concentrati nella ricerca del responsabile o i responsabili di quello che è accaduto, si avvallano ipotesi e accuse: chi c’è davvero alla regia occulta di quello che è successo, chi è il colpevole di tanto odio, chi alimenta un clima così teso, chi esorta all’intolleranza e alla violenza che si cela dietro alle tensioni sociali che sfociano in gesti del genere?
Sono domande lecite che denotano come tutte le democrazie del mondo, in prima fila quella americana, sono fortemente sotto stress. Ma bisogna tenere in considerazione che in America non è la prima volta che un’arma viene puntata contro una figura politica (e non) di grande rilievo e non sempre con esiti fortunati come è stato per Trump. A cominciare da Lincoln nel 1865, poi James Garfield nel 1881, William McKinley nel 1901, l’indimenticato John Kennedy nel 1963 e dopo di lui anche il fratello, nel 1968, durante la campagna presidenziale, Robert Francis Kennedy detto Bobby, furono tutti uccisi da un attentatore. A questi si uniscono i molteplici attentanti falliti: Ronald Reagan, Franklin Delano Roosevelt, Harry Truman, Theodore Roosevelt e Gerald Ford. Nel 2005, a George W. Bush è stata lanciata una bomba a mano mentre stava partecipando a un comizio a Tbilisi, in Georgia! Quindi, non è una cosa così anomala – purtroppo – che in America possa accadere un evento del genere. Senza dimenticare che un qualsiasi americano medio abbia la possibilità di detenere regolarmente un’arma, lo stesso Donald Trump è per il libero possesso delle armi! Non a caso l’Ar-15, il fucile utilizzato sabato dall’attentatore ventenne Thomas Matthew Crooks, è considerata l’arma nazionale degli Stati Uniti, la più diffusa in tutto il Paese, nonché la protagonista di gran parte delle stragi di massa americane.
Forse se c’è un problema da risolvere è nella sicurezza, gli addetti alla sicurezza di Trump, che a quanto pare diversi testimoni hanno provato ad avvisare, non sono riusciti ad intercettare uno sbandato allo sbaraglio, perché di quello si tratta. L’attentatore, infatti, viene ora descritto come un giovane disadattato, bullizzato, fanatico di armi e che addirittura era già stato notato per via dei messaggi minacciosi sui profili social.
“L’attentato a Donald Trump impone a tutti noi un passo indietro” è il commento a caldo del Presidente in carica Joe Biden in un discorso alla nazione dopo l’attacco a Donald Trump, tra l’altro suo diretto avversario alla corsa per le Presidenziali. “Non siamo nemici, siamo tutti americani – ha continuato Biden – La violenza politica non può essere normalizzata. Ribadisco che la posta in queste elezioni non è mai stata così alta, ci credo con tutto il mio cuore, ma dobbiamo abbassare i toni. La politica non può essere un campo di battaglia. Le decisioni si prendono nelle urne, con il voto, e non con le pallottole”.
Non si sa se effettivamente un discorso del genere sia più ispirato dal timore di una risposta da parte di un qualche fanatico trumpiano – l’assalto a Capitol Hill ci ricorda di cosa siano capaci i seguaci di Trump – oppure se sia dovuto al ruolo di grande uomo di Stato che riveste e che vuole preservare, ma sicuramente è un discorso che non fa una piega ed è quello che necessita in questo momento, Biden ha fatto centro! Forse non gli servirà a nulla e Biden non verrà rieletto alla Casa Bianca, anzi probabilmente sarà presto sostituito, ma agli occhi di tutti lo ha riabilitato da tutte le congetture che ha subito ultimamente e subisce ancora, non solo da parte degli avversari, ma anche e soprattutto dai suoi sostenitori.
Redazione La Pagina