La signora P. è arrivata in Svizzera dalla Puglia insieme al marito nel 1962, all’età di 23 anni, alla ricerca di lavoro. Grazie all’aiuto della cognata la signora P. ha trovato lavoro da Bianchi a Zurigo.
Bianchi, con il suo negozio in Marktgasse, è stato per moltissimi anni un’istituzione nel campo alimentare: l’unico luogo a Zurigo dove trovare pesce fresco, selvaggina, carne e pollame, poi la ditta, all’inizio degli anni Novanta, ha trasferito la sua sede a Zufikon, per ingrandirsi e perché far arrivare camion di pesce fresco nel pieno centro di Zurigo era diventato complicato. Da Bianchi lavoravano quasi esclusivamente italiani e spagnoli. Alla signora P., oltre al lavoro, avevano offerto una camera in un appartamento sopra il negozio, da condividere con un’altra famiglia. „Una camera bella grande“ – mi dice soddisfatta – non come quella dove ha vissuto i primi tempi a Dietikon. Dopo un certo tempo Bianchi le ha offerto una stanza in più nello stesso appartamento.
Fra il 1963 e il 1965 sono nati tre figli e nel 1972 è arrivato il quarto. La signora P. doveva lavorare, come il marito, perché fare soldi era importante, per garantire un buon futuro ai figli, per fargli fare una vita meno sacrificata di quella che aveva avuto lei , per riuscire a costruirsi una casa in Italia e tornarci a vivere più avanti, sogno che non si realizzerà di fatto, ma che aiuta a lavorare una media di 12 ore al giorno. Sotto Natale, poi, da Bianchi si lavorava anche di più. Tanta gente faceva la fila davanti al negozio per portare a casa le leccornie italiane e il salmone per la Vigilia. E la signora P. era diventata esperta proprio nel taglio sottile del salmone, arrivando alla precisione di fare pacchetti da 100 grammi ciascuno ad occhi chiusi. Durante le giornate natalizie i clienti erano cosi tanti che la signora P. e altre lavoratrici si spostavano dal laboratorio al negozio, vicino alla cassa ad impacchettare gli acquisti. Evidentemente se negli anni Sessanta gli emigranti italiani non erano ancora ben visti da molti svizzeri, di sicuro il loro cibo e la loro cucina andavano a ruba!
Nell’arco di 30 o 40 anni alcuni aspetti della cultura e della mentalità italiana si sono guadagnati un posto d’onore nello stile di vita zurighese, abbondano ormai, per esempio, i bar dove fare la pausa caffé con un buon espresso. Ma la signora P. e la sua generazione non hanno approffittato di questa ondata di cambiamento. Nonostante sia grata per l’occasione che ha avuto da Bianchi, nonostante abbia molti buoni ricordi, perché tutto sommato Bianchi è stata per lei come una famiglia per più di trent’anni, il lavoro occupava tutto lo spazio e per poter lavorare ha dovuto lasciare che i suoi figli fossero allevati da altre donne, prima in Italia dalla nonna materna, poi in Svizzera, quando la nonna materna è morta e i figli erano ormai in età scolare, lasciandoli tutti insieme da una famiglia in affido, in un paese vicino a Zurigo. La donna affidataria era bidella in una scuola, ed è lì che i suoi figli hanno potuto studiare. Li vedeva solo il sabato sera e la domenica. Ma la cosa più terribile, come racconta lei, è stato quando all’inizio ha dovuto lasciarli in Italia. Aveva paura che tornando in Svizzera non l’avrebbero riconosciuta, come è successo ad altre madri. Non è stato così e quando parlo con li figli, rimasti a vivere qui e oggi pieni di attenzioni per lei, non trovo ombra di risentimento. In fondo sono potuti crescere insieme, in campagna, in un bel posto e sono potuti andare a scuola e questo era importante per la signora P., perché sapeva che il sacrificio, anche economico, avrebbe garantito loro un futuro in questo paese, senza problemi di lingua, liberi di scegliere poi qualunque lavoro.
La scuola è fondamentale, per una donna che non ha fatto scuole. Né in Italia né in Svizzera. In Svizzera, perché quando ce n’è stata occasione era troppo grande, si vergognava ad andare nei corsi serali con persone molto più giovani di lei e poi non ce ne sarebbe stato nemmeno il tempo. In Italia perché già da piccola doveva lavorare nei campi per aiutare la famiglia. Giocava raramente, con una bambola di pezza che si era fatta da sola. Nessuna libertà. Nel tempo libero ricamava al telaio o aiutava un’amica ad accudire i fratelli più piccoli. I piaceri maggiori erano bere ogni tanto acqua col vino, e sentire l’odore delle polpette fatte dalla madre.
Ancora oggi, nell’alloggio assistito Oasi Due (Zurigo) dove vive, è importante per lei sentire l’odore buono del cibo. Esigente e a volte critica con i menu che presentiamo, è sempre pronta però a fornire aiuto e consigli perché una ricetta riesca al suo meglio, come tutte le donne che hanno passato la vita a cucinare per gli altri. Quando non tagliava il pesce da Bianchi, al sabato sera, fino a mezzanotte, faceva lasagne, arrosti e torte per i figli che finalmente la domenica erano a casa con lei, cercando così di recuperare il tempo perduto. E in Oasi Due accettiamo di buon grado che le figlie portino a volte qualcosa cucinato da loro, qualcosa di speciale che arriva dall’Italia, cosi anche l’affetto che lei ha dato ai figli sotto forma di cibo, ritorna a lei.
Di questa storia ho parlato anche con una delle figlie. Ci siamo trovate in una pasticceria aperta da poco nel quartiere di Albisrieden. Abbiamo bevuto un cappuccino alle tre del pomeriggio, prima che la figlia andasse a trovare la madre all’Oasi Due. Io, che sono di un’altra generazione di italiani emigranti rispetto alla signora P., mi sono potuta prendere una pausa dal lavoro, per bere un espresso, fatto dagli svizzeri ma alla nostra maniera.