Simona Migliorini ci racconta attraverso la storia di alcune nostre connazionali, una possibile soluzione per gli emigrati italiani e spagnoli, una sistemazione che rassicura i loro figli. Nel prossimo numero potrete trovare la seconda parte della vicenda
“Son partito al chiaro di luna, per cercare un po’ di fortuna, e nel partire tutto dovei lasciare: questo l’è ‘l destin di chi deve emigrare! (…) Son tornato di giorno a Maggio pieno, quando il sole risplende sereno, e con gli amici canto in allegria, son tornato alfin alla casetta mia!” (da un canto popolare dell’emigrazione) Ci sono più di 100.000 emigranti, arrivati in Svizzera negli anni cinquanta e sessanta, che in realtà non sono tornati ai paesi d’origine. La maggior parte di loro sono italiani, emigrati con l’idea di fermarsi all’estero pochi anni, ma nel costruire il futuro di questo paese, hanno posto le basi anche per il loro. In Svizzera sono nati e cresciuti i loro figli e i loro nipoti e nel frattempo, nel corso degli anni, hanno perso in Italia amicizie e contatti. Nel tornare in patria molti di loro non avrebbero più alcuna rete sociale di sostegno. Oggi hanno nei figli e nei nipoti il loro punto di riferimento, ma figli e nipoti hanno le loro famiglie, il lavoro e vivono spesso in abitazioni costruite a misura di piccoli nuclei, dove è difficile accogliere una persona anziana, affetta da patologie anche gravi, bisognosa di cure e attenzioni continue. A complicare le cose c’è il fatto che quasi nessuno, appartenente a questa generazione di emigranti, è in grado di parlare tedesco. Le Oasi di Zurigo (Oasi e Oasi2), volute dalla fondazione “Alterswohnen in Albisrieden”, sono due piccole case di cura nate una nel 2006 e l’altra nel 2008 per rispondere alle particolari esigenze di questa fascia della popolazione, per venire incontro ai problemi che devono affrontare i figli di questi emigranti che, negli anni sessanta, hanno dato un contributo fondamentale alla crescita del paese dove ora stanno invecchiando. Nella stragrande maggioranza dei casi sono proprio i figli o i nipoti a dover decidere quale sia la miglior soluzione per garantire una vecchiaia il più possibile serena a genitori o parenti. Abbiamo parlato con alcuni di loro, per capire cosa li ha spinti a cercare in uno dei cosiddetti “reparti mediterranei” una sistemazione per i familiari. La storia di Giuseppina, ospite in Oasi dal 2009, è emblematica al riguardo. Arrivata in Svizzera dalla Sicilia negli anni sessanta, si è sposata qui con un italiano. Si è occupata dei figli (due femmine e un maschio), ma ha anche lavorato tanto, prima in una grande lavanderia a piegare il bucato, poi come sarta. Nel gennaio del 2008 il marito muore, Giuseppina resta sola, con problemi di vista e di udito e va a vivere a casa di Carmen, l’unica figlia che poteva ospitarla. “ Mia madre aveva una camera tutta sua” – mi racconta Carmen, nata a Zurigo nel 1969, sposata con due figli già grandi – “uscita dalla sua camera si ritrovava in salotto o in cucina, esattamente come ora all’Oasi, ma non era contenta, anche se aveva tutto a sua disposizione sembrava sempre che le mancasse qualcosa. Aveva anche paura a stare in casa da sola, a volte voleva uscire, andare in tram, ma non sentiva e non vedeva bene, allora noi figlie non andavamo a lavorare per poterla accompagnare ed eravamo sempre preoccupate. Non era facile. La sera nascondevo a mio marito la giornata brutta che avevo avuto, ma il problema era che la sera mia madre stuzzicava anche il marito! Ha cominciato a desiderare di tornare giù in Italia, si era fissata di voler vivere vicino a suo fratello, ma suo fratello era più malato di lei e non poteva aiutarla.”
Decidono comunque di fare un tentativo e la lasciano vivere da sola in un appartamento in Sicilia, ma i problemi non tardano ad arrivare. Giuseppina ha continuamente bisogno di aiuto e quando si rompe una gamba e finisce in ospedale, le figlie riescono finalmente a farla tornare a Zurigo. Viene inserita in un’Altersheim, dove, mi racconta Annamaria, l’altra figlia nata nel 1974, “non si trovava bene, era come un ospedale, sei letti per stanza, non riusciva a parlare con la gente, non poteva comunicare, perché il tedesco lo aveva imparato lo stretto necessario. Stava buttata sopra un divano, senza parlare con nessuno. Ci diceva: io qui non faccio altro che alzarmi, mangiare, dire Guten Morgen, arriverderci e buonanotte.”. Negli uffici della Sozialamt di Zurigo hanno avuto informazioni sull’Oasi e hanno subito deciso di iscriverla. “All’inizio non voleva andarci – dice Annamaria – ha impiegato almeno sei mesi ad ambientarsi e sicuramente era anche un po’ arrabbiata perché non volevamo tenerla in casa. Prendere questa decisione è stata dura anche per noi, perché la mentalità italiana è sempre quella di tenere la mamma in casa, fare l’impossibile per questo, ma oggi come oggi, con il lavoro, i bambini, la famiglia, oggi è tutto diverso”. “E comunque ora “ interviene Carmen, “ con l’Oasi siamo contentissimi. La mamma si è ripresa benissimo e se oggi le chiedo se vuole venire a casa mia, non viene! Dice: no, no, grazie, qui a mezzogiorno e alle sei, la sera, si mangia puntuali, qui la mattina mi aiutano e ho la mia libertà”. “Il fatto è che in Oasi ci sono poche persone, con tanto personale – mi spiega Carmen – e l’anziano si sente bene accudito. Poi c’è la musica italiana, le tradizioni dei santi… mia madre si sente in Italia”. Storia e problemi simili nelle parole di Franca, la cui madre è arrivata in Svizzera nel 1960 da un piccolo paese vicino a Potenza, si è sposata qui con un bergamasco e ha lavorato trent’anni alla SBB come donna delle pulizie. Il marito è morto nel 1995. Più tardi ha trovato un compagno, con cui ha convissuto 12 anni, fino a quando lui è risultato affetto da demenza. Inizialmente il contatto con l’Oasi – trovata tramite Internet – era stato preso pensando a lui. Le cose sono peggiorate quando lei ha avuto un ictus e quando anche il ricorso alla Spitex non era più sufficiente per coprire tutto il bisogno di cura che cominciava ad avere. “All’inizio mia madre non è venuta in Oasi volentieri – dice Franca, nata a Zurigo, sposata, con una figlia adolescente e un lavoro part-time -, aveva quell’idea sbagliata che si ha in Italia degli istituti per gli anziani, ma in Oasi sono solo nove persone, è tutto molto più personalizzato rispetto ad altre grandi strutture e poi si parla italiano, fondamentale per mia madre che non parla bene il tedesco”. “Tutta quella generazione di emigranti ha problemi con il tedesco”, interviene Rinalda, che in Oasi è riuscita a sistemare sua zia, anche lei arrivata in Svizzera negli anni sessanta dalla provincia di Brescia, per anni impiegata nella Niedermann Metzegerei, ma rimasta nubile, senza figli, quindi sola e non intenzionata a tornare in Italia, dove comunque avrebbe avuto, come appoggio, solo una sorella ottantenne. Anche Rinalda, unico suo punto di riferimento dopo la morte di un compagno con cui la zia conviveva, è ricorsa inizialmente ai servizi della Spitex, ma non era abbastanza. Anche sua zia è stata prima inserita in una grande struttura, insieme ad altre 70, 80 persone, “ma lì sei come un numero” – dice Rinalda – “mentre il punto di forza dell’Oasi è che è come una famiglia, non si è mai trattati anonimamente. Se in più hai il problema della lingua! Quando mia zia è arrivata qui, non c’erano, come oggi, quei corsi e quelle strutture che aiutano nel processo di integrazione. Mio padre, muratore, frequentava dei corsi serali di tedesco, ma erano tutti uomini, le donne non usufruivano di questa possibilità. Arrivati ad una certa età, quando ci sono sempre problemi nuovi di salute, devi poterti spiegare bene. E’ importante essere in un luogo dove il personale capisce cosa dici. E poi in Oasi capiscono anche meglio la mentalità e il carattere latino!”
“ Più in generale – precisa Rinalda – conta il fatto che sono attenti alle tradizioni italiane e che gli ospiti possono partecipare nel dare vita a queste tradizioni, come per esempio fare insieme il presepe. Un’altra cosa che io personalmente apprezzo molto è che facciano merenda al pomeriggio. Anche nelle altre case di cura o di riposo puoi andare nella caffetteria a bere qualcosa, ma in Oasi la merenda è proprio un rito, si ritrovano a tavola verso le 15, con la frutta, i biscotti, il caffè e per loro sono piccole cose importanti che danno un ritmo alla giornata. E poi per lei è importante che possa mangiare le cose che mangiava una volta, la pasta, la minestra la sera…”. Anche Cosima, di origine pugliese, la cui madre è in Oasi dal gennaio del 2009, mi racconta di quanto sia stato positivo, per sua madre, poter cucinare a Natale le “pittole”, specialità tipica della sua regione o di come fosse stato un evento mangiare il baccalà, cucinato da un’altra ospite della casa di cura. Anche sua madre, oggi affetta da demenza, è arrivata in Svizzera negli anni sessanta, a seguito del marito. Aveva già 32 anni quando lo ha raggiunto, ha lavorato per un po’ di tempo alla Zwicki (senza imparare il tedesco, perché il suo capo parlava benissimo italiano), quindi si è occupata a tempo pieno dei tre figli, della casa e dell’orto. Ha abitato sempre in campagna, vicino a Volketswil, ed è restata sola nel 2003, quando il marito è morto di cancro. Anche per loro, alle prime avvisaglie della malattia, c’è stato il ricorso alla Spitex e la necessità, fra fratelli, di fare i turni per andare a controllare, ogni giorno, che la madre stesse bene, prendesse le medicine regolarmente, facesse la spesa ed effettivamente mangiasse. “Ma era difficile – mi spiega Cosima – perché io vivo a Zurigo e mia sorella abita ancora più lontano di me rispetto a Volketswil. Mio fratello abita vicino, ma è un uomo e per un uomo è più difficile occuparsi della madre anziana, poi qui in Svizzera non è come in Italia, dove spesso le mogli devono aiutare le suocere, qui è più tipico tenere separati i nuclei familiari”. Quando i figli capiscono che è arrivato il momento di inserire la madre in una struttura, cercano inizialmente di inserirla in una Pflegewohnung di quartiere: “Ma Volketswil non ha funzionato – chiarisce Cosima -, innanzitutto perché dicevano che non erano specializzati per malati di demenza e poi c’era il problema della lingua. Abbiamo discusso a lungo con i dottori su cosa fosse meglio per lei, se una struttura dove parlano italiano o invece una struttura specializzata per dementi, ma alla fine l’idea di inserirla in un luogo di cultura italiana ci è sembrato più adeguato alle sue esigenze: mangiare pietanze italiane, poter celebrare le feste e le tradizioni del suo paese d’origine, tutte queste cose sono molto importanti per mia madre, mentre tutta una serie di altri problemi, come per esempio i cambiamenti di personale, che non sono certo positivi per una persona affetta da questa patologia, ci sono comunque anche nelle altre case di cura. Per la generazione di mia madre, e penso ancora almeno per i prossimi 10, 20 anni, è fondamentale avere a disposizione questi cosiddetti ‘reparti mediterranei’” conclude Cosima. Nel 2006 – quando è nata la prima Oasi – si contavano nel Cantone di Zurigo più di 51.000 italiani, di cui il 16%, ovvero quasi 9.000 persone, ultrasessantacinquenni. Si contavano anche 10.000 spagnoli e fra questi circa 800 ultrasessantacinquenni. È evidente che i reparti mediterranei avranno ancora una funzione importante nei prossimi anni. Servono oggi anche ad indicare una strada per il futuro: ritrovare nella terza età il rispetto e l’attenzione per i valori con cui si è cresciuti, poter comunicare e condividere con altre persone tradizioni, rituali e ricordi, è una fonte di salute e rende ogni cura più efficace. Questo vale per noi tutti, e a maggior ragione per chi sta invecchiando lontano dai luoghi d’origine, staccato dalle proprie radici.
Simona Migliorini
1 commento
Che bello sapere che i propri cari sono in un posto tranquillo dove vengono accuditi con cura. Mi piace. I miei genitori sono terrorizzati di andare a finire in una struttura simile. Infatti ci stanno facendo morire di ansia a noi figli. Non sappiamo più dove sbattere la testa.