Ci sono capolavori che sfidano il tempo, opere che spingono il lettore a riflessioni impietose, la cui attualità magari ancora porta imbarazzo.
Imperdibile, e dunque benvenuta, la ristampa di “Un borghese piccolo piccolo”, di Vincenzo Cerami, edito da Garzanti.
L’autore, uno dei più noti sceneggiatori cinematografici italiani, scrisse quest’opera quasi cinquant’anni fa, con una prosa essenziale, ineguagliata, attualissima.
Il tema è l’eterna rincorsa al benessere, i cui contorni geografici oggi sembrano aver perso i confini ed essersi propagati a livello universale.
La famiglia Vivaldi, i protagonisti, ha un unico obiettivo: un posto fisso per il figlio unico, di recente ma sudatissimo diploma.
Missione impossibile nell’Italia degli anni Settanta: oltre diecimila candidati concorrono per milleduecento posti nella Roma dei ministeri, per sistemarsi a vita, il sogno di tutti.
Missione impossibile, si diceva, forse una delle tante stranezze della cronaca italiana; attitudini superate, sbiadite dal tempo, potrebbe semplicisticamente aggiungere chi non ha girato il mondo o che oggi lo esplora solo in forma digitale.
Soluzione a tutti i problemi: la raccomandazione di una persona giusta, l’aiuto di qualcuno all’interno della mostruosa ed inaccessibile macchina burocratica italiana, un mondo che Cerami descrive come segue:
“Nessuno aveva fretta, anzi se la prendevano molto comoda: nessun capoufficio avrebbe preteso di far cominciare il lavoro prima delle dieci suonate. Giovanni pensava a suo figlio e aveva molte cose da insegnargli: a parlare senza accento dialettale; a esporre con i suoi principi senza strafare; a sapersi accattivare la benevolenza dei superiori.
Alle dieci in punto entrò nel suo ufficio. Si sedette al suo posto e scomparve dietro i fascicoli accatastati sulla scrivania. Quello che ognuno faceva era un mistero. Pigramente, controllavano se i documenti previsti dalla legge per avere accesso all’immenso e privilegiato mondo dei pensionati erano in regola.
Giovanni aveva davanti agli occhi la cartella gialla su cui era scritto il suo nome e cognome: VIVALDI GIOVANNI. Con soddisfazione risfogliò documenti e certificati e richiuse il fascicolo con un pizzico di malinconia.
Ecco il Ministero com’era dentro. Per esempio, all’esterno, un capoufficio contava molto più di un impiegato. Ma, invece, «dentro» contavano soprattutto «quelli che avevano le conoscenze»; incutevano un rispetto diverso, una specie di paura: avevano tanti amici in alto e tanti nemici in basso […]”
La persona giusta in questo caso è il capufficio del povero Vivaldi, disperato al punto tale da avere aderito alla massoneria per arruffianarsi il superiore.
La manovra funziona: l’aiutino arriva, con una convocazione da parte del potentissimo dirigente.
“Si sedette dietro la scrivania.
«Ci siamo!» declamò il capoufficio strizzando l’occhio sinistro.
«Ho con me una copia del problema», sussurrò guardandosi in giro. Sul ripiano del tavolo un pezzetto di carta su cui era steso il testo del quesito che di lì a un paio di giorni il Presidente della Commissione d’esami avrebbe letto a una classe di almeno mille giovanotti.”
Ma il lieto fine non arriva. Il giovane raccomandato viene ucciso per una tragica fatalità, proprio il giorno del sospirato esame.
La famiglia del povero impiegato statale si avvia quindi verso un tragico epilogo, quello cui tutti gli sconfitti sembrano geneticamente destinati.
Al protagonista morirà anche la moglie. Ucciderà poi l’assassino del figlio. Infine tornerà alla sua casa, ormai vuota.
Solo, destinato ad una esistenza disperata, che l’autore riassume con semplicità magistrale:
“Andò in cucina a prepararsi il caffè.
Pose la macchinetta sul fuoco, tirò fuori la tazzina, ci mise dentro due cucchiaini di zucchero. Decise che più o meno gli restavano quindici anni da vivere.
La caffettiera ribollì. Riempì la tazzina e ci soffiò sopra. Soffiava e pensava che per una quindicina d’anni tutte le mattine sarebbe stato così.”
di Nicoletta Tomei