In Birmania il presidente Thein Sein si dice d’accordo con il Premio Nobel Aung San Suu Kyi e vuole fermare il progetto di una diga alta 152 metri che obbligherebbe 63 villaggi e 12 mila persone ad evacuare dalla regione
C’è una zona del mondo, la Birmania, che sembrava fino a pochi mesi fa votata ad uno scontro tra la Giunta militare al potere e l’opposizione guidata dal Premio Nobel Aung San Suu Kyi, e invece si avvia verso un periodo di pacificazione e di interesse nazionale. È troppo presto per affermarlo con certezza ma alcuni elementi fanno ritenere che in Birmania un periodo di scontro si sta per chiudere e un altro di confronto civile e democratico si sta per aprire, all’insegna dell’autonomia dall’ingombrante vicina che è la Cina. Ricapitoliamo un po’ la storia recentissima. Come si ricorderà, il Premio Nobel, tenuto per anni in prigione, poteva costituire un pericolo per le elezioni dell’anno scorso, ma un incidente venne in soccorso dei militari filocinesi al potere: la visita rocambolesca di un cittadino americano che aveva fatto di tutto per rendere omaggio – disse lui – alla donna nella sua casa, dove era agli arresti domiciliari. La polizia scoprì la “visita” e accusò il Premio Nobel per la Pace di aver trasgredito la legge sull’immigrazione, condannandola ad un periodo di detenzione, quanto bastava per tenere Suu Kyi fuori dalla campagna elettorale. Vinte le elezioni, la Giunta militare nominò un nuovo primo ministro nella persona di Thein Sein, si spogliò della divisa e liberò Suu Kyi, pur mantenendo la Birmania sotto regime dittatoriale e ipotecata dalla Cina. E siamo all’agosto scorso, quando il premio Nobel e leader di un’opposizione democratica e non violenta, interpretando i bisogni e gli umori della popolazione, si oppose, con la forza della sua persona e dell’aureola che la circonda da tempo, alla costruzione della diga più alta del mondo (152 metri) in progetto di costruzione alla confluenza di due fiumi minori che danno origine ad un fiume più grande, l’Irrawaddy, che rappresenta il cuore dell’economia birmana.C’è da dire che la colossale diga di Myit Sone era il frutto di un progetto portato avanti da due società cinesi che, evidentemente, lavoravano in gran parte per l’economia cinese. L’investimento era di tutto rispetto, 3.600 miliardi di dollari per fare la diga più alta del mondo ed altre sette dighe minori lungo il bacino del fiume. Poi, avrebbe avuto una capacità di 6.000 megawatt, e il 90% dell’energia prodotta, sarebbe andato a favore della Cina. Già queste tre condizioni la dicono lunga sui vantaggi che la Cina avrebbe tirato da un simile progetto e su quelli secondari che avrebbe ricevuto la Birmania. Ma c’è di più. La costruzione della grande diga avrebbe comportato l’evacuazione di 63 villaggi e di circa 12 mila abitanti, completamente sradicati dalla loro regione, e come se non bastasse, la diga avrebbe sconvolto l’ecosistema di tutta quella zona. La Birmania, in poche parole, avrebbe avuto quasi tutto da perdere dal disastro ambientale e poco da guadagnare dal punto di vista dello sviluppo industriale in mano ai cinesi. Di qui, dicevamo, la protesta popolare sostenuta dai gruppi ambientalisti e rafforzata dalla discesa in campo del Premio Nobel. La settimana scorsa i frutti di questa protesta hanno mostrato che in Birmania qualcosa sta cambiando rispetto ad alcuni anni fa. Lo stesso presidente della ex Giunta militare ed ora governo civile, Thein Sein, con una lettera al Parlamento, ha dichiarato che la diga di Myit Sone verrà bloccata per tutta la durata del suo mandato, cioè almeno fino al 2015, ammesso che non venga defenestrato prima. Motivazione data dallo stesso Thein Sein: “Un governo ha il dovere di ascoltare il popolo” e il popolo, come abbiamo detto, la megadiga non la vuole affatto, come probabilmente non vuole affatto che in Birmania comandi la Cina.Ed ora? Probabilmente ci sarà una lotta aspra: da una parte l’opposizione democratica e non violenta e, insieme, i gruppi ambientalisti, e dall’altra tutti coloro che invece la diga la vogliono, come le élite militari ed ora civili che fino a poco tempo fa avevano il potere in mano e che ora cercheranno di riconquistarlo. Si opporranno con altri mezzi e metodi i cinesi, per i quali la diga era un colossale affare. Non siamo in grado di valutare cosa succederà e chi la spunterà, è certo però che dall’anno scorso, cioè dalla formazione del nuovo governo uscito dalle elezioni senza Aung San Suu Kyi, c’è un nuovo clima. Forse è presto, come detto, per parlare di svolta radicale, ma indubbiamente ad auspicare una nuova fase non è solo il presidente ma anche vari ministri del suo governo, a cominciare da quello del Lavoro, Aung Kyi, che ha auspicato che la Lega Nazionale per la democrazia, il partito del Premio Nobel, sia legalizzato, o da quello degli Esteri, Wunna Maung Lwin, che a Washington ha avuto incontri ad alto livello, a suggellare, evidentemente, una svolta che è ancora agli inizi ma che viene individuata come la speranza della nuova Birmania. [email protected]