Dicembre non è il mese che amo. Troppa è l’attesa per qualcosa di grande mai realizzata. Mi ricorda di aver vagato per tutta la vita alla ricerca della perduta felicità. Lo stesso messaggio del Natale cristiano, pur risalente alla plurimillenaria apparizione del Nazareno nella martoriata terra di Palestina, ha perso gran parte della sua misticità, annegato, com’è, nel mercimonio del consumismo.
Laggiù, nella terra in cui Gesù predicò l’amore e la concordia tra le genti, qualcuno sta morendo colpito dai propagatori di un odio criminale e assassino.
Altri prendono la disperante via dell’esilio.
L’esodo di massa, racchiuso in uno dei tanti barconi sprofondati nel Mediterraneo con il carico di una umanità a cui il destino ha negato anche una sola lacrima a ricordo.
Pattugliare le coste sud del “mare nostrum” con la marina di guerra per impedire l’imbarco dei miserevoli. O forse, sarebbe persino preferibile bloccarli nell’arida immensità del Sahara, come avveniva un tempo, prede dei carovanieri della morte a cui si lasciò in pasto il sangue dei vinti.
Idee di una malvagità senza fine che prendono corpo.
Ingigantite sull’onda di attentati che hanno colpito tanti innocenti, dal bataclan parigino a Istanbul, Bruxelles, Berlino, il luogo in cui la giovane Fabrizia, della terra d’Abruzzo, ha spento gli occhi nel mentre realizzava il suo sogno di cittadina dell’Unione. Ci accorgiamo dell’orrore solo quando la cancrena ha oramai invaso i nostri corpi e non porci la domanda, o una sola riflessione, sulle colpe per quanto è accaduto e accade, entro e oltre i nostri confini nazionali e comunitari.
Chiediamo sicurezza. A noi basta per potere alzare l’albero beneaugurante, sfavillante di luci e colori, inneggianti a un Dio pagano della fertilità e dell’abbondanza.
La casa dei miei vicini, un luccichio di sperpero, da settimane addobbata da far concorrenza al vicino Swiss Casinos, del Plaza Hotel o del Seedamm Center, una pacchianeria senza limiti, per cui attendo impaziente il sorgere dell’alba, la pausa quotidiana di un tale nefandezza. Tutto il villaggio, d’altronde, sfavilla come un luna park, o un gioioso Titanic in cui l’orchestra suona l’ultimo Walzer nel mentre la prua già sta scrutando il fondo dell’abisso.
Maledetta nostalgia! È dicembre di un anno che fu.
Vedo il ragazzino graffiare i fiori dipinti dal gelo sulla finestra di una misera dimora. Guardare oltre la siepe e scrutare all’insù per scorgere il primo fiocco di neve. Il primo. Solamente il primo.
È lui che porta la magia per farti sognare. Scende lentamente. Ondeggiando qua e là, spinto dalla carezza e dal soffio del vento. Eccolo! Si abbraccia alla terra e scompare nel nulla. Il manto bianco ha oramai coperto la natura, ogni cosa. E la festa finì in quell’attimo, come nel “sabato del villaggio” di leopardiana memoria. Talvolta, per rinnovare l’incanto, si affaccia a piedi nudi oltre la porta di verde dipinta a tastare il manto bianco. Per ritrarsi atterrito al sentore del gelo. Accadde, venti anni dopo, a Paul (Robert Redford) in “A piedi nudi nel parco,” il film che racconta la gioia perduta. E poi ritrovata nel rinnovato amore a Corie, (Jane Fonda) come lui la cerca nel materno tepore di mamma Nilde.
Our souls at night. (Le nostre anime di notte)
È il libro postumo di Kent Haruf, e racconta la storia di un uomo e di una donna, Louis e Addie, oltre i settanta anni.
Soli. Vedovi. Abbandonati.
Vivono gli incubi di una solitudine che si rinnova ogni sera mentre si coricano senza il tepore di qualcuno o qualcuna accanto. Rinnovano, nell’abbraccio della notte, il sogno in una nuova speranza d’amore.
Ce la racconteranno in un film, Jane Fonda e Robert Redford, cinquant’anni dopo di “A piedi nudi nel parco.”
Dicembre è partito senza rimpianti portando seco una scia infinita di violenza e dolore.
Il Presidente della repubblica, Sergio Mattarella, si è rivolto agli italiani con la sobrietà del linguaggio dell’uomo di stato consapevole dei malanni che affliggono la patria italiana e tuttavia cosciente delle grandi potenzialità racchiuse nel seno del nostro Paese.
Il lavoro, la coesione sociale, l’emigrazione come libera scelta, il linguaggio privo di odio e il rispetto, pur nelle differenze, tra i soggetti chiamati alla guida delle istituzioni e della cosa pubblica. Un discorso a cuore aperto. Semplice. E nella sua semplicità, solenne. Caro Presidente, auguri! A tutti noi.
All’Italia, il paese che amiamo.
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