Irritato da questa lezione, durante la ripresa del viaggio per Nicomedia Lattanzio aveva più volte ripensato alle parole di Porfirio, che, non avendo potuto piegare alla sua seduzione, aveva declassato a vacuo sofista, senza riuscire ad ammettersi che la delusione ricevutane era già implicita nelle ragioni per cui l’aveva cercato. La sua conclamata ammirazione per il filosofo posava in effetti più sull’esaltazione di conoscere una persona famosa, che sull’eccellenza di una dottrina a lui ignota. Se si fosse analizzato meglio, avrebbe saputo, già prima della partenza, che nel desiderio di conoscerlo operava la fama del grand’uomo, della cui amicizia avrebbe voluto menar vanto. Vi operava ancora l’orgoglioso proposito di affilare le armi con uno spirito così eccelso, nella speranza sottaciuta di abbacinarlo con la sua retorica. E anche se questo non fosse accaduto, avrebbe pur sempre potuto raccontare a modo suo, non essendoci nessuno a contraddirlo, quanto il grande Porfirio era stato piegato dalla sua eloquenza, al punto da non riuscire quasi a spiccicare parola.
D’altra parte, non si sarebbe mai recato a Lilibeo per puro amore del sapere e per scambiare pareri con l’illustre pensatore; mai vi sarebbe stato spinto solo dalla frenesia di conoscerlo; e se la nave non avesse fatto scalo sull’isola, non se ne sarebbe dato pensiero. Ma dal momento che così era, Lattanzio non aveva voluto perdere quella bella occasione di salire nella considerazione del mondo, oltre che nella propria. Magari quell’incontro avrebbe segnato l’inizio di uno scambio epistolare, di cui già immaginava l’uso che avrebbe fatto, sventolando a qualsiasi interlocutore il privilegio di essere amico del grande uomo, per suscitarne l’invidia o trarne lustro! E pur essendo già incline alla conversione, con Porfirio aveva esibito una modestia calcolata solo per strappargli un moto di simpatia; e per poter intanto affilare le armi con cui sferrare all’improvviso un colpo al più formidabile avversario del cristianesimo, e ergersi a degno campione della fede.
Nel congedarsi dal filosofo, pur senza essere riuscito nel suo intento, Lattanzio era comunque soddisfatto del valore emblematico che il colloquio aveva assunto ai suoi occhi, nonché per essere riuscito a trarre Porfirio nei lacci della sua arte. E poteva dire appagata la sua vanità, anche se il colloquio era stato frustrante, dall’euforia di aver incontrato una delle menti più acute del tempo, la cui fama gli aveva ispirato fin una timorosa reverenza. Non avendo mai letto i suoi trattati, e non avendo pertanto altre ragioni di ammirarlo se non la voce che correva della sua fama, dopo la frustrazione subita da parte di chi avrebbe voluto invece travolgere, una volta cessata la visita, Lattanzio aveva preso a volerne al filosofo, la cui immensa dottrina contraeva ormai soltanto in un profilo austero e scheletrico.
Svanita ogni ragioni di celebrarne l’intelligenza, Lattanzio restringeva ora il giudizio alla sgradevolezza della persona, senza nemmeno concedere l’attenuante che ben altre profondità potevano giacere nei recessi di un’opera che si era guardato bene dal leggere. Ormai Porfirio era per lui solo un vecchietto presuntuoso, arrogante e dogmatico; e si sentiva quindi autorizzato a deporre tutta l’ammirazione che credeva di aver provato prima di conoscerlo, a favore di un tic sgradevole o della scostante durezza del carattere. Tutto il prestigio di cui l’aveva aureolato prima si era rapidamente dissolto in una sagoma ossuta, dalla voce rauca e il cranio pelato, in cui si consumava il tonfo demistificatorio del mito in latrina. Una metamorfosi iniziatasi nel momento stesso in cui aveva capito che l’umiltà, esibita più per vezzo che per convinzione, non aveva più ragione di frenarsi, e poteva lasciar il passo a qualche affondo ben altrimenti impetuoso.
Valendosi degli accorgimenti della retorica, nel confronto con gli avversari Lattanzio tendeva a non scoprire inizialmente la sua vera natura. A questa prudenza contribuiva una nota di insicurezza, imprevedibile in chi tanto credeva in sé, associata a un difettoso esercizio di autocritica. Per questo gli accadeva di tergiversare su equilibrismi di compromesso, più che avventurarsi subito in pericolosi diverbi. Prendendo il rischio che si potesse scambiare la sua cortesia per debolezza, gli era accaduto più volte di riconquistare il vantaggio perduto con uno scoppio di aggressività del tutto inaspettato da interlocutori che, nell’esporre le loro opinioni, non sapevano di poter innescare reazioni così violente. Altre volte, invece, mutando interamente tattica, il retore autorizzava nei suoi riguardi qualche libertà di linguaggio, limitandosi a controllare che l’orgoglio non ne uscisse troppo malconcio. E se questo accadeva, la mitezza dell’insicuro si tramutava da difesa in attacco, mediante i lenocini del lungo apprendistato e del furore represso.
Era quanto dire che Lattanzio riconosceva in sé la tara di un’incresciosa viltà, da cui, malgrado gli sforzi per esibire integrità, non riusciva a liberarsi. Tentava come poteva di nasconderla, o di evitare situazioni a rischio. Ma se essa a sorpresa gli rodeva la coscienza, col medesimo istinto di sopravvivenza dell’animale, il retore si rifugiava in un groviglio di sofismi; e per non rinnegare i principi più cari, si accomodava a tortuosi compromessi con l’autorità: intuendo, anche se non vi era mai stato costretto, che mai la coerenza l’avrebbe persuaso al sacrificio della vita.
La sua scioltezza espressiva, che, corroborata dal tirocinio forense, gli dava sicurezza nei processi, allorché doveva difendersi da frasi di scherno, si travestiva di umiltà, per sciogliersi a sorpresa in apoteosi. Né altrimenti aveva fatto con Porfirio, per suscitargli con l’apparente onestà intellettuale un cedimento di simpatia di cui approfittare. E subito comprendendo che il filosofo era refrattario alla sua retorica, Lattanzio aveva preferito presentarsi in modo inerme, per poterne meglio studiare le mosse. Ma era stata proprio l’umanità di Porfirio a ridurne ai suoi occhi la statura. E ora che i tratti somatici tracciati dall’immaginazione mal si adattavano alla figura secca della realtà, e la povertà del tugurio mal si confaceva ai lussuosi palazzi in cui lo localizzava la fama, il severo pensatore non conservava più nulla della veneranda autorità.