24 aprile 31 maggio 2016: Maschinenfabrik di Oerlikon
Inaugurata a Oerlikon, presso il parco della Maschinenfabrik, l’esposizione dell’emigrazione italiana nella cittadina svizzera racconta la storia della diaspora italiana nel luogo simbolo della grande industria metalmeccanica elvetica. Nel primo dopoguerra, la Svizzera, favorita dalla neutralità durante il conflitto, conobbe uno straordinario sviluppo in ogni campo dell’attività industriale,
Dalla metallurgia all’orologeria, come nella chimica e nell’industria dolciaria, la Confederazione raggiunse primati produttivi sino allora impensabili tali da imporre il ricorso al massiccio arrivo di manodopera straniera.
Braccia di lavoro e nulla più, affermò Max Frisch, in una famosa citazione tanto discussa.
Temporanei, stagionali, annuali, possessori più tardi, dopo dieci anni di lavoro continuato, del permesso di domicilio a indicare il primo grande processo integrativo degli stranieri in terra elvetica.
Encomiabile, l’iniziativa del gruppo di pensionati italiani di Zurigo nord.
Serve a riscostruire la memoria di un periodo storico simile, in molti aspetti, al processo migratorio in atto in tanta parte della nostra Europa.
È la storia di migliaia di giovani, uomini e donne, partiti dal profondo sud come dalle zone più povere e arretrate del nord, alla ricerca del lavoro, sconosciuto nella loro terra natia, immiserita dalla povertà e dalla disoccupazione di massa in una Italia uscita sconfitta e umiliata dall’avventura totalitaria.
Si può ben dire che, nella Maschinenfabrik di Oerlikon, si è scritta la storia dell’esodo di massa racchiuso in un fazzoletto di terra. Facce di storie di vita. Mescolanze di provenienze che, prima del duro confronto con la comunità locale, impararono a conoscersi tra loro, a comprendere e condividere usi e costumi così diversi dal sud al nord della nostra terra italica.
Si può ben dire che a Oerlikon, Zurigo e altrove il primo grande successo integrativo fu tra la comunità italiana affratellata da un destino duro e comune.
La generosa miscela dei dialetti della penisola fu la molla per combattere la solitudine e la rassegnazione.
Siciliani, calabresi, pugliesi, sardi, abruzzesi, toscani, emiliani- romagnoli, veneti, lombardi e di ogni altra regione italiana, si trovarono a costruire una nuova e inedita esperienza storica e umana.
A coabitare nelle baracche. Fianco a fianco alle catene di montaggio. Alla stazione centrale di Zurigo o di ogni altra città svizzera, grande e piccola, nelle pause lavorative infrasettimanali.
Eppure, questi strani lavoratori dai tanti idiomi seppero costruire, dentro la fabbrica, uno straordinario rapporto sociale con la comunità locale tanto da cambiarne, almeno parzialmente, gli usi e costumi.
Non solo i tradizionali spaghetti o la magica pizza. Ma pure il modo di vestire. Di vivere il tempo libero. Di atteggiarsi al prossimo nella vita di ogni giorno.
La Svizzera cambiò anche grazie a noi. E il suo popolo, quando fu chiamato, nel 1970, dallo xenofobo Schwarzenbach a decidere sulla nostra sorte, seppe dire un no consapevole e solidale alla separatezza e alla divisione. Nell’immaginario mio vedo un treno degli anni cinquanta- una tradotta – che parte da Taranto verso Salerno e durante il tragitto si arresta, sbuffando, a Eboli, il luogo ove Cristo si arrestò attratto dal senso di solitudine e disperazione, come scrisse il grande letterato Primo Levi. Prosegue verso Napoli e poi, lungo la penisola, raggiunge Milano, Chiasso, la Svizzera, le alpi e Zurigo.
Si è riempita durante il tragitto, la tradotta umana, trasformando i miseri vagoni di terza classe nell’ ammasso di odori dei prodotti della loro terra natia violentata dall’alba al tramonto: le scorte per i giorni a venire.
Poveri, di modesta istruzione e stato sociale. Da braccia di lavoro a cittadini in un processo storico di pochi decenni.
Forse un miracolo, riservato a chi sa combattere e guardare al futuro.
In quelle splendide immagini della mostra si possono osservare volti di uomini e donne, ragazzi e ragazze al lavoro e in convenevoli di vita.
Molti non sono più tra noi. Tanti sono ritornati in patria.
Altri ancora, sono pensionati o nuovi cittadini svizzeri.
Fra loro, io penso, i protagonisti della catena della solidarietà che abbracciò Oerlikon e Zurigo nell’affetto per i mille morti della tragedia friulana, terra d’emigrazione colpita dal disastroso terremoto, il 6 maggio del 1976.
Auguri, italiani di Oerlikon.
Siete il nostro orgoglio e la nostra bandiera.