In Turchia un milione di persone a favore di Erdogan, ma a Piazza Taksin sono scontri e arresti tra manifestanti e forze dell’ordine. In Iran il moderato Hassan Rohani vince le elezioni al primo turno
La Turchia è sempre di più nell’occhio del ciclone, con una protesta sempre più decisa a manifestare con forza nelle piazze del Paese il proprio dissenso dalla linea politica di Erdogan, accusato di voler abbandonare la laicità dello Stato per portarlo verso una deriva islamista, e il premier sempre più deciso anche lui a considerare i manifestanti dei vandali che hanno fatto scappare via dalla Turchia gl’investitori stranieri.
La protesta, come si ricorderà, esplose in opposizione al progetto governativo di voler cancellare Gezi parc, uno dei pochissimi polmoni verdi di Istanbul, per farne un casermone ottomano con un grande supermercato. Ci furono scontri tra polizia e manifestanti, la polizia contrastò con veemenza la marea di oppositori, ci fu qualche morto, tanti arresti e molti feriti, ma la calma si raggiunse quando il presidente della Repubblica invitò il premier a far ritirare la polizia, cosa che venne fatta, seppur tardivamente.
Erdogan, impegnato nel Maghreb, quando tornò in Turchia invitò i manifestanti a desistere, che il Paese non poteva permettersi scontri infiniti. Promise che avrebbe dialogato con una rappresentanza dei manifestanti e che avrebbe sottoposto il progetto sul Gezi Parc a referendum.
Allora Gezi Parc fu occupato pacificamente da decine di migliaia di giovani che con tende, canti, bancarelle si appropriava di uno spazio comune. Intanto, però, altrove le proteste continuavano e continuavano nella stessa Istanbul, con barricate, danneggiamenti vari e con le strade che erano un cumulo di difese. Erdogan invitò i manifestanti a sgomberare, ma non accadde nulla, finché una mattina arrivarono mezzi pesanti e blindati a supporto di migliaia di poliziotti che sgomberarono e arrestarono varie centinaia di manifestanti. Lo scontro fu duro ma non toccò coloro che occupavano Gezi Parc, ai quali comunque il potere si rivolse invitandoli a sgomberare gli spazi che erano comuni a tutti, continuando a promettere un referendum cittadino, ma dicendo senza raggiri di parole: “Se domani mattina qualcuno sarà ancora lì faremo quello che dovremo fare” e che poi è quello che si è verificato, con un’azione di forza con idranti, camionette e poliziotti in tenuta antisommossa. Ancora scontri durissimi, con feriti e danneggiamenti e uso di idranti con irritanti e lacrimogeni della polizia.
Domenica ci sono state due manifestazioni, una a sostegno di Erdogan e l’altra di manifestanti decisi a non cedere e a mandarlo via. Erdogan, davanti ad un milione di persone, ha detto che era suo preciso dovere di primo ministro far sgomberare Gezi Parc e che la protesta è stata orchestrata dai media stranieri. L’altra manifestazione, pure affollata, è stata contrastata da un dispiegamento eccezionale di forze di polizia che hanno fatto ricorso a liquidi urticanti negli idranti. E’ probabile che gli scontri non finiscano qui.
Ma l’altro fatto importante nel Medio Oriente è il risultato elettorale in Iran, dove ha prevalso, già al primo turno con il 50,7% dei voti, il moderato Hassan Rohani, l’uomo con il turbante, l’uomo che piace ai riformisti, ma anche l’uomo che è vicino alla Guida Suprema Ali Khamenei, che nel 1999, di fronte ad una piazza di contestatori ebbe a sibilare un auspicio: “Impiccateli”. Ora, a distanza di 14 anni, viene ritenuto l’uomo del dialogo. Sono tanti i giornali autorevoli americani che hanno messo in guardia l’Occidente dal dargli credito, ma Obama e l’Ue si sono detti pronti a dialogare. Prima delle elezioni ha detto: “Il mio governo non sarà di compromesso e di resa, ma nemmeno da avventurieri internazionali (riferendosi all’ex presidente uscente Ahmadinedjad, ndr). Riconcilierò l’Iran con il mondo”.
Sergio Romano prima delle elezioni aveva detto: “Nessuno dei due sarà un leader democratico. Ma saranno il vertice di un regime che vuole essere legittimato dalle elezioni, permette ad alcuni candidati di andare a caccia di voti e lascia così spazi di libertà che altri sistemi autoritari non permetterebbero”. Con un corollario: “Parlare con l’Iran è necessario per almeno tre ragioni: è una potenza regionale, ha un capitale petrolifero che può giovare all’intera regione ed è la guida autorevole di una minoranza sciita che attraverso il Golfo è maggioranza in Iraq, si estende sino alla Siria e soprattutto al libano. Non riusciremo a spegnere i fuochi della Siria senza la collaborazione dell’Iran”.
Ed ecco il parere di Azar Nafisi, ex docente di letteratura inglese in Iran ed ora negli Usa: “La vittoria di Hassan Rohani è la chiara dimostrazione che le sanzioni dell’Occidente hanno funzionato”. L’autrice di “Leggere Lolita a Teheran invita a “non farsi illusioni perché il successore di Ahmadinejad non è un moderato e tanto meno un riformista. Il suo trionfo non è affatto una sorpresa ma è stato studiato a tavolino dall’ayatollah Ali Khamenei per due scopi ben precisi: da una parte convincere l’Occidente a rimuovere le sanzioni, dall’altra placare un’opinione pubblica interna, il cui scontento ha raggiunto livelli allarmanti. E’ una costante nella politica iraniana”. L’analista iraniano-americana Trita Parsi è lapidaria: “Rohani non è la rottura: è il volto più presentabile d’un regime”.
Ciò non toglie, come diceva Romano, che il dialogo sia non solo necessario, ma indispensabile.