Le difficoltà di formare un governo di minoranza a guida Bersani stanno creando malumori all’interno del maggior partito di centrosinistra
Che il Pd non sia un monolite, ma sia diventato una costellazione di gruppi, come una volta era il partito socialista o la Dc, lo prova quello che sta succedendo in questi giorni e che noi abbiamo cercato di descrivere nelle ultime settimane e che due giornalisti, Antonio Polito sul Corriere della Sera, e Luca Ricolfi su La Stampa, hanno ben descritto venerdì scorso.
Matteo Renzi, reduce da un’intervista che aveva suscitato aspre critiche nel Pd stesso per aver detto che non c’era tempo da perdere, che o andava fatto un accordo con il Pdl di Berlusconi o conveniva andare di nuovo alle urne, ha preso un’altra batosta dal Pd della Toscana, che lo ha escluso dai tre rappresentanti che formeranno il numero dei “grandi elettori” che dovranno eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Renzi, però, questa volta è scoppiato e in sostanza ha detto: prima mi volevano tra i grandi elettori e poi mi fanno fuori. Renzi, però, ha aggiunto che gli ha telefonato il presidente della Regione Toscana per annunciargli che avrebbe fatto il rimpasto della giunta ma che non aveva trovato nessun posto per uno dei “renziani”. Insomma, ha detto il sindaco di Firenze, hanno ricevuto una telefonata da Roma e mi hanno fatto fuori, precisando che i bersaniani lo vorrebbero fuori dal partito ma che lui, invece, intende rimanere.
All’improvviso salta fuori il nome del ministro Fabrizio Barca, figlio del parlamentare Pci, che in pratica si pone come il rinnovatore del Pd e mette a disposizione del partito – a cui non era iscritto fino alla settimana scorsa – la sua leadership per rinnovare il partito stesso con un documento in cui spiega come concepisce il rinnovamento del Pd e che lui si pone come elemento di saldatura tra la sinistra bersaniana del Pd e Sel di Vendola. In pratica o una maggioranza di sinistra da contrapporre al peso di Renzi nel Pd oppure un altro partito che rappresenti l’istanza di sinistra accanto ad un partito rappresentato da Renzi che è moderato ma che si alleerà con il partito di Barca. Insomma, il futuro più o meno immediato del Pd sarebbe uno spacchettamento tra il partito di Renzi al 20% e il partito di Barca al 20% che, sommato farebbero il 40%, cioè un’alleanza maggioritaria. Ovviamente, questa prospettiva presuppone che Bersani sia messo da parte.
A dare man forte a Renzi è intervenuto un paio di giorni dopo Franceschini, che, fatto fuori dalla presidenza della Camera, cui aspirava al punto di aver già fatto stampare i biglietti da visita, ha preso le distanze da Bersani della cui linea politica fino al giorno prima era stato il più fedele sostenitore.
Dall’altra parte, ad indicare come la linea Bersani e la sua leadership stia perdendo quota, ci si è messo Massimo D’Alema che si è recato a Firenze per parlare con colui che lui mesi fa aveva definito “immorale” quando il sindaco di Firenze aveva parlato di esponenti del Pd da “rottamare”, tra cui c’era anche D’Alema. D’Alema, insomma, va a trovare il suo rottamatore e gli riconosce “grande personalità”. Con lui D’Alema ha parlato della sua candidatura a presidente della Repubblica per isolare Bersani stesso, contro cui se la prende anche Rosi Bindi, presidente dell’Assemblea nazionale, che da una parte sostiene, come Franceschini, che bisogna fare un accordo con il Pdl, dall’altra rivendica ad un cattolico la presidenza della Repubblica. Nel Pd la parte cattolica serra le fila contro la parte ex comunista.
Antonio Polito conclude con l’invito al Pd a mettere al centro l’interesse nazionale e non la guerra per bande.
Luca Ricolfi, da parte sua, mette l’accento sulla linea politica impersonata da Bersani con la seguente immagine: Bersani vuol fare le nozze con il M5S, cioè con “una sposa recalcitrante” con un corteggiamento tanto serrato quanto inconcludente. Siccome, però, dopo tanto ha capito che non c’è nulla da fare con Grillo, vorrebbe “governare da solo, ma con i voti degli altri. Bersani vorrebbe i voti del Pdl o della Lega (quelli di Grillo ha finalmente capito che non li avrà) ma senza fare un governo con i ministri del centro-destra (…) Questa posizione è chiaramente irragionevole, non solo dal punto di vista del Pdl (perché gl’impresentabili dovrebbero regalare i loro voti a chi così profondamente li disprezza?) ma anche dal punto di vista del Pd”. In sostanza, Ricolfi si chiede: come può Bersani aspirare a fare un governo di minoranza e di cambiamento nello stesso tempo se “in ogni momento può essere condizionato, ricattato e affondato dai suoi sostenitori esterni”. Conclude Ricolfi: “Bersani ha paura dell’unica soluzione che potrebbe darci un governo non effimero: un accordo serio fra destra e sinistra”.
Alla fine, pressato dall’opposizione interna, Bersani ha acconsentito a fare un incontro con Berlusconi, con dei paletti precisi: niente governo con il Pdl, niente ministri Pdl, niente presidente della Repubblica non di centrosinistra, ma una rosa di nomi all’interno della quale Berlusconi dovrebbe scegliere un nome. Torniamo al giudizio di Luca Ricolfi, sociologo di centrosinistra: davvero un accordo a senso unico che nessuno di buon senso potrebbe accettare.
Adesso sono cominciati i giochi per l’elezione del presidente della Repubblica. Bersani spera che il nuovo presidente, che tra l’altro entra in carica ufficialmente il 15 maggio, gli dia il pieno mandato per un governo di minoranza. Sempreché Bersani riesca a tenere le redini del Pd, che è una cosa a questo punto non scontata.