Il primo atto di una grande tragedia storica
Il declino e la caduta di un impero non sono mai frutto del caso, ma della concomitanza di più circostanze che, talvolta, si combinano in blocco. Narratore appassionato di un periodo storico fondamentale per l’Occidente, quello che, nel IV secolo d.C., segnò il passaggio dalla tetrarchia pagana fondata da Diocleziano al cesaropapismo cristiano di Costantino il Grande, Gerardo Passannante affronta una sfida complessa e difficile senza mai cadere nell’astruso o, all’opposto, nel prevedibile.
Il declino degli dèi prende le mosse dal fulmine che, nell’anno domini 283, incenerisce la tenda dell’imperatore Caro, spianando la via all’irresistibile carriera di un generale illirico al quale una druidessa aveva profetizzato un destino glorioso. Passerà alla storia con il nome di Diocleziano, e riuscirà ad imbalsamare per un ventennio un impero ormai disgregato e decomposto, ideando una nuova forma di governo, la tetrarchia. Passannante, capace di padroneggiare un intreccio romanzesco assai complicato grazie a una prosa elegante e raffinata, si addentra nella psicologia dei personaggi storici con una sonda di netta impronta junghiana: scava dentro di loro per coglierne i più segreti impulsi interiori, ne mette a nudo le sofferenze e le contraddizioni, ne incornicia le vicende in un’epoca di mutamenti traumatici, di sanguinosi intrighi, di implacabile resa dei conti fra una cultura ormai esausta e svuotata – quella degli dèi pagani declinanti, appunto – ed un’altra emergente e rivoluzionaria, quella cristiana del dio unico incarnato in terra da un Messia morto sulla croce per aver predicato la fratellanza universale. Una commedia del Potere, dove si agitano sulla scena maschere ora tragiche ora grottesche: «Sollevato all’impero in un secolo di violenza, sono condannato a finire presto, e non mi importa. Quando poi sarò scomparso, vadano pure in malora insieme a Roma questi parassiti del senato, che, ingannati dalle loro pinguedini, ignorano la vanità del transitare. Sconoscono, essi, le immersioni nei rigurgiti dell’odio; sono ciechi al sopruso degli eventi: e perciò non intendono il significato della mia vendetta su quel mondo che ha violato la mia fanciullezza innocente». Il monologo di Carino, giovane imperatore dissoluto che morirà pugnalato alle spalle da un tribuno al quale aveva stuprato e ucciso la sposa, appare fortemente emblematico di questa crudele introspezione che pervade tante pagine del romanzo di Passannante; mettendo anche a nudo, come un nervo scoperto, il profondo disagio di un autocrate ormai distante da qualsiasi affetto privato: «Diocleziano sapeva bene, e l’aveva capito nel momento stesso in cui aveva rivisto Prisca, che a lui d’ora in poi i sentimenti più ordinari non appartenevano più, che la scalata all’impero gli aveva donato l’universo, ma gli aveva sottratto il minuscolo, immenso bene, degli affetti comuni».
I fondamenti del potere imperiale, dunque, si rivelano fragili come il basamento di una statua costruito sulla sabbia: Passannante lo sottolinea in svariati passaggi, dando vita a un’intrigante alchimia di sentimenti e di emozioni, di parole e di silenzi, di occhiate e di sguardi. La galleria dei personaggi storici è folta: oltre a Diocleziano e all’imperatrice Prisca, la loro figlia Valeria e il suo innamorato senza speranza, il tribuno Aurelio; gli altri tre tetrarchi Massimiano, Galerio e Costanzo; la madre del futuro imperatore Costantino, Elena; il retore cristiano Lattanzio e il filosofo pagano Porfirio; l’eunuco Doroteo, e tanti altri evocati dal passato, come gli imperatori Gallieno e Valeriano, il martire Cipriano, la regina di Palmira Zenobia, il vescovo Paolo di Samosata, l’eretico Ario, l’usurpatore della Britannia Carausio. Passannante si sofferma ampiamente sugli antefatti della vicenda narrata, allo scopo di far riemergere le radici di uno degli eventi epocali della storia umana quale fu il crepuscolo di Roma prima del crollo finale. Dal punto di vista letterario, l’esperimento risulta assai stimolante: filosofia e religione, sviscerate in digressioni che immergono il lettore nella mentalità dell’epoca, costituiscono i due elementi essenziali di contorno della trama romanzesca (…) di cui questo primo atto traccia i presupposti, a cui sicuramente avrebbe potuto ispirarsi Shakespeare.(…)
Passannante racconta a quali sotterfugi fece ricorso Diocleziano per conquistare lo scettro imperiale nel bel mezzo del caos cruento della Grande Anarchia, durata mezzo secolo, e come seppe conservare quel potere scegliendo di condividerlo con uomini che, a parte Costanzo Cloro, non possedevano le sue doti di statista. Uomini che, proprio perché rozzi e mediocri, Diocleziano era in grado di controllare e manovrare. Nelle pieghe del racconto, Passannante insinua la dimensione oppressiva e claustrofobica del potere, e la tratteggia attraverso certi dettagli che non sfuggono al lettore dal palato più esigente: «La tua prudenza non nasce dal timore che ti suscita ogni innovazione, e ti rende ostile a questo loro fervore? Il tuo rispetto per le divinità dell’impero, del resto, e lo so bene, è solo un’abitudine, e non una convinzione!», così Prisca rinfaccia a Diocleziano il suo tradizionalismo ipocrita che lo rende diffidente verso i cristiani. I dialoghi incalzanti gettano un fascio di luce su torbide macchinazioni di palazzo che, quasi allo scadere del ventennio dioclezianeo, sfoceranno nella decima ed ultima persecuzione anticristiana, la più insensata e virulenta di tutte.
Passannante ha sicuramente studiato a fondo la storiografia dell’impero romano (Eberhard Horst ed Edward Gibbon su tutti), e nelle sue pagine si sforza di oltrepassare le apparenze e di comporre un affresco storico lontano da qualsiasi luogo comune. E se, nel gettare la sonda nei moti interiori il suo stile narrativo si aggira nei dintorni di Joyce, di Musil e della Yourcenar, alcune impennate classiciste fanno più pensare al Flaubert di Salammbô. Il ghigno malsano di un dispotismo agonizzante traspare in tutta la sua ferocia in certi ritratti che, per il lettore appassionato di storia antica, rappresentano una prova di notevole maestria narrativa da parte di Passannante.
Il declino degli dèi è un caleidoscopio di sensazioni forti, carico di tensione morale e di conflitti emotivi, che rispecchia le convulsioni di una svolta epocale: le parole e il sangue affiorano da queste pagine coinvolgenti, dove la freddezza del cronista si surriscalda a tratti nel palpito violento del narratore di drammi individuali e collettivi, destinati a confluire nell’immenso magma della Storia umana.
Guglielmo Colombero