Il nuovo numero uno cinese ha capito che il livello di corruzione nel partito ha raggiunto livelli intollerabili e vuole introdurre riforme a piccoli passi
Sul New York Times è uscito un articolo a firma di Christopher Johnson, analista di questioni cinesi. L’articolo, in realtà, non è frutto solo delle capacità di Johnson di capire ciò che succede in Cina, ma anche di un dossier mandato da una mano sconosciuta che voleva far sapere in Occidente cosa sta succedendo in quel Paese a tre mesi di distanza dalla nomina a Segretario Generale del Partito di Xi Jinping, succeduto a Hu Jintao. Intanto si può notare che ci sono segreti che devono rimanere tali e segreti che pur dovendo rimanere segreti in qualche modo servono a far sapere qualcosa anche fuori. Non è la prima volta che ciò accade in Cina. E’ successo, infatti, poco più di tre mesi fa, prima del Congresso che ha incoronato Xi Jinping, quando una mano anonima ha passato alla stampa americana i possedimenti di Hu Jintao, un modo come un altro che divulgare quanto possedeva, cioè quanto aveva rubato e dato ai parenti e amici di cordata. Non per nulla il tema del Congresso cinese di tre mesi fa era la corruzione esistente nelle istituzioni e tra i dirigenti e funzionari di partito. Insomma, uno scandalo di enormi proporzioni. L’elezione di Xi Jinping avvenne sotto il segno del cambiamento in termini di lotta alla corruzione dilagante, ma bisogna vedere se il nuovo Segretario Generale riuscirà nell’impresa di ritornare allo spirito originario del “sogno cinese”, del “sogno comunista”, del “rinnovamento della nazione” nella continuità ideologica.
Il discorso di Xi Jinping è avvenuto a Shenzhen, nel Meridione, proprio come Deng Xiaaoping nel 1992, nel suo famoso viaggio al Sud, quando rilanciò le riforme dopo la repressione di Tienanmen. Dunque, Xi Jinping ha voluto sottolineare il riferimento al suo illustre predecessore. Ma ciò che colpisce di più è l’argomento del suo intervento: la corruzione diffusa in Cina. Egli, infatti, parla di “lotta a tigri e mosche”, di “ritorno alla frugalità” (“Bastano quattro piatti e una zuppa”, alludendo a pranzi, cene e pernottamenti in hotel di lusso a spese dello Stato), di “onestà”, di “servizio”. Il riferimento all’arricchimento di funzionari e dirigenti è chiaro, come è chiaro il messaggio, tra l’altro rivolto a porte chiuse proprio davanti ai quadri del regime. La Cina, dunque, è governata da una rete di sostenitori del partito che vivono di partito, ai danni evidentemente della gente comune che non può che rassegnarsi, finché ciò sarà possibile, finché cioè non intervengano condizioni mature per una protesta generale. E’ quello che è accaduto in Urss alla fine degli anni Ottanta con Gorbaciov. Il sistema era paralizzato dalla corruzione e bastarono parole come “perestroika” per far saltare tutto, perché il sistema non era riformabile in quanto non si può passare dalla dittatura alla democrazia in un istante. Il tema della caduta dell’Urss è l’altro tema affrontato nella riunione con i quadri di partito da Xi Jinping. Ecco la risposta di Xi Jinping: “I sovietici sono caduti perché i loro ideali e le loro convinzioni vacillavano. E alla fine bastarono poche parole di Gorbaciov per decretare la fine di un grande partito e lo scioglimento dell’Urss. In quell’ora nessuno si dimostrò uomo, nessuno si fece avanti per resistere”. In Cina, dunque, ci si pone il problema del pachiderma, se sia riformabile o se sia destinato a saltare nel giro di una decina di anni.
Lo dice Yasheng Huang, professore al Mitt di Boston: “Democratizzare o morire. Il potere deve affrontare le riforme politiche o si troverà a fronteggiare una rivoluzione nel giro di dieci anni. Fino ad ora ciò che ha trattenuto i cinesi dal rivoltarsi non è stata la carenza di domanda democratica, ma la mancanza di offerta”.
Ecco perché il nuovo capo della Cina ha citato il proverbio che dice: Quando si guada un fiume, tasta i sassi ad uno ad uno”. Per dire che ci vogliono le riforme nella continuità, ma ci vogliono, se non si vuole fare, appunto, la fine dell’Urss.