La triste fine di una donna incinta soffocata in casa e buttata nel Po dal marito Kulbir che ne denuncia la fuga con un amante inesistente
Non è stata la prima e purtroppo sicuramente (ma speriamo di sbagliarci) non sarà l’ultima vittima di una morte violenta perché “viveva all’italiana”. Kaur Balwinde, una donna indiana giovane e bella, giunta dall’India quando aveva 8 anni, aveva frequentato a Firenze gli ultimi anni della scuola elementare, poi la media e infine la scuola alberghiera. E’ finita nel Po, non per incidente o per un malore, ma perché buttata nel fiume quando era già morta, soffocata dal marito, Singhj Kulbir, 36 anni, anche lui indiano, ma venuto in Italia sei anni fa. L’uomo, un paio di giorni dopo l’uxoricidio, si era presentato dai carabinieri per denunciarne la scomparsa. Erika ed Omar, dopo aver ucciso la madre e il fratellino di lei, dissero che erano stati un gruppo di zingari, Kubir aveva detto che sua moglie “era scappata con il suo amante”. Si sa, il diavolo fa le pentole ma dimentica i coperchi. Quindici giorni dopo, il fiume fa riemergere il corpo dell’indiana ed allora gl’inquirenti capiscono che non era stato nessun amante a soffocarla, ma il marito, che, messo sotto torchio, alla fine ha confessato: “Sì, sono stato io a uccidere mia moglie. Ha rinnegato le nostre usanze: viveva come una occidentale, aveva dimenticato di essere una moglie indiana, non una italiana”.
Clamorosi sono stati i casi di Hina, ragazza marocchina che voleva vivere all’italiana e che è stata uccisa dal padre; o quello della ragazza pakistana uccisa dal padre con la complicità del fratello e dei parenti, compresa la madre, e sepolta nel giardino di casa, colpevole di quella grande trasgressione che consiste nel voler vivere all’occidentale; e poi di tanti altri. Kaur, come detto, era arrivata in Italia all’età di otto anni e si era subito ambientata, parlava bene l’italiano, usciva con le amiche, indiane ed italiane, andavano a mangiare la pizza il sabato sera, insomma, una vita normale. Era una bella ragazza, dai modi gentili ed educati, si faceva ben volere da tutti. Poi, sei anni fa, il matrimonio con Singhj Kulbir, giunto direttamente dall’India e impiegato in una fattoria di Fiorenzuola d’Arda, in provincia di Piacenza, gran lavoratore, ma, come si diceva una volta da noi, all’antica. Un matrimonio combinato, secondo le usanze indiane, che evidentemente Kaur aveva subìto. Il ménage, tuttavia, era stato felice, all’inizio. Kaur era rimasta subito incinta, ma i suoi modi “italiani” non erano ben sopportati dal marito. Il fatto che Kaur uscisse liberamente per lui era una trasgressione indicibile, non doveva succedere, non poteva succedere. Dunque, i primi litigi, anche perché erano subito affiorate le differenze culturali: lei italiana in tutto, tranne che nelle fattezze del viso, lui indiano dalla testa ai piedi, ma soprattutto nella testa. Lei voleva uscire, lui voleva tenerla chiusa in casa, al punto che lui le aveva venduto la macchina e lei era stata costretta a vivere nella prigione della casa, tanto più che negli ultimi anni a vivere con loro era giunta la madre di lui, cane da guardia dell’indianità.
Kulbir aveva trovato lavoro in una fattoria. Ecco la testimonianza di Maria Gruppi Testa, proprietaria dell’azienda ed amica di Kaur: “Kaur era proprio bella, aveva modi gentili, tanto che mi è stata subito simpatica, e con il tempo mi ci sono affezionata. Lei si confidava spesso con me. All’inizio le cose sembravano andare bene: lui lavorava in campagna, lei aveva avuto subito un bambino. Era nato qui, lo avevo visto crescere, per me era come un nipotino. I primi anni Kaur usciva e faceva lavoretti domestici per arrotondare, aveva la patente, guidava. Poi però, due anni fa, era venuta a vivere con loro la madre di Kulbir, e la vita di Kaur era diventata un inferno. Me lo raccontava lei stessa quando mi veniva a trovare e voleva sfogarsi. Mi diceva che l’avevano reclusa in casa. Il marito le aveva venduto l’auto e non le permetteva più neanche di andare in bicicletta. La suocera la teneva sotto controllo tutto il giorno”.
Ecco la testimonianza di Kaur all’amica: “Mio marito mi picchia, dice che spendo tutti i soldi, ma non è vero: io non spendo nulla. La spesa la fa lui, porta a casa tutte le cose che piacciono a sua madre e mi accusa dicendo che il figlio che aspetto non è suo ma di un mio amante”. Gelosia, ignoranza, insicurezza: sono le armi prima delle minacce, poi della violenza, solo perché la povera donna, che non faceva nulla di male, voleva essere una persona, una persona, non una cosa, un oggetto.
Era nata in India la povera Kaur ed era cresciuta a Firenze ed è morta soffocata a 27 anni dall’uomo che le era stato imposto come marito.