Il MACT/CACT ARTE CONTEMPORANEA TICINO ha aperto l’ 8 settembre 2012 un’esposizione a tratti rigorosamente museale, anche se di grande apertura su di un personaggio forte e tuttora contrastato all’interno del panorama culturale a sud delle Alpi. Come sempre, i curatori della mostra affrontano non già la visione e il conseguente impatto indigeno verso questo grande artista, quanto il suo giusto riposizionamento all’interno di una scenografia internazionale dell’arte, disegnatasi proprio durante il grande secolo delle avanguardie e della cosiddetta modernità. Quelle stesse modalità di approccio critico all’universo culturale e artistico circoscritte al Novecento, quale notevole periodo storico di fermento intellettuale, ma – contemporaneamente – di particolare crisi del cambiamento, sia culturale che sociale. Questa mostra è un omaggio alla figura apolide ed eclettica di FELICE FILIPPINI (1917-1988); scrittore, pittore, giornalista, pensatore scettico e schivo verso le mode dominanti e il tessuto sociale, in cui ha vissuto e operato. Soprattutto la figura di Filipini pittore verrà affrontata in questa mostra, unica nel suo genere per la capacità di confronto della sua opera visiva – dalla fine degli anni ’30 fino agli anni ’80 – con l’internazionalità; dalla sua ideale adesione alla Scuola Romana e a Corrente, rivista artistico-letteraria interdetta dal regime fascista di Mussolini nel 1940, fino a toccare l’espressionismo nordico, partendo – in entrambi i casi – dalla loro radice rinascimentale. Nato nel pieno della prima Grande guerra, di cui la presenza di un’opera risalente al 1917 di Otto Dix (1891-1969) richiama i disastri morali e sociali di un’Europa allo sfascio, Felice Filippini si mette quindi sapientemente in dialogo con l’humus culturale degli anni successivi e dei loro autori, che in qualche modo alimentano e rinvigoriscono la sua curiosità professionale e l’ambiente storico e societale, nel quale l’artista di origine ticinese si è trovato ad operare: dal periodo della seconda guerra mondiale fino alla sua morte. Alcuni dei riferimenti ripresi all’interno della mostra sono inizialmente il pittore svizzero Luigi Rossi (1853-1923), esponente di quell’Ottocento lombardo, che – con Filippo Franzoni, Mosè Bianchi, Daniele Ranzoni, Federico Faruffini, Tranquillo Tremona, nonché la Scapigliatura lombarda in generale e altri, – ha dato vita, sul crinale tra Ticino e Milano, a un forte movimento artistico di portata interlocale. La presenza altrettanto significativa di figure quali Apollonio Pessina (1879-1958), Jean Corty (1907-1946) o Aurelio Gonzato (1914) insegnano e testimoniano quanto l’osmosi culturale tra taluni artisti ticinesi e il fermento artistico internazionale abbia prodotto, in un cantone da sempre avaro di riconoscimenti ed interessamento verso le sue personalità, personalità di notevole spessore creativo e culturale.
Da sempre restìo a cedere alla lusinga delle mode e delle avanguardie, come crogiolo di una estenuante coerenza più stilistica che contenutistica, Filippini – nella terza fase della sua produzione artistica – si concentrò attorno alla figura dell’uomo e dei suoi rizomi, della società che lo partorisce e lo istruisce, pur percependo il forte cambiamento epocale che stava sopraggiungendo e che rivoluzionerà la seconda metà del secolo scorso fino alla crisi deideologizzante del nuovo millennio, terribile, quanto irreversibile e finalmente reale; la caduta del modello e degli stilemi borghesi. Le opere realizzate alla fine degli anni ’80 La città moderna (1988) e Il cimitero delle automobili (1987) stigmatizzano e rappresentano in qualche maniera il processo di liquefazione dell’ultimo Novecento. L’acqua, la morte, la nave dei superstiti o dell’umanità che cade e che va, gli amori e le passioni sensuali; questi sono i temi ch’egli elabora con ossessività, togliendo tutti i possibili veli inibitori al suo sentire emotivo e sempre insoddisfatto; e cercando di svelare il mistero dell’esistenza e del suo inesorabile finire.
La Vita, la Morte, la Sessualità come luoghi comuni delle vanità umane sono qui rappresentate in chiave più terminologica, il gesto veloce e colorato, la frammentazione di una società in cerca d’identità si ricollegano a quelle figure espressionistiche e brut come Martin Disler (1949-1996), Louis Soutter (1871-1942), Varlin (1900-1977). Felice Filippini, con il suo importante testo letterario IL SIGNORE DEI POVERI MORTI (1942), rimane una personalità profondamente onesta che ha saputo, con quella giusta dissacrazione tipica dell’artista vero, infastidire le convenzioni sociali di un contesto europeo benpensante di sviluppo globale e universalità economica del dopo-guerra.