Il mondiale ha chiuso la sua ultima recita al mitico Maracana di Rio de Janeiro. Un mese travolto da intense passioni. Già, nessuno sport è tanto popolare come il calcio. Venti uomini in mutande che corrono dietro alla palla senza poterla toccare con le mani. Altri due attendono, con terrore, il momento in cui saranno trafitti dalla saetta del bomber a cui opposero, invano, le manone guantate. In fondo, come affermò Alfredo Di Stefano, un grande di ogni tempo, il football è un gioco contro natura.
L’hanno inventato gli inglesi, si dice, e sarà pure vero. Anche se, qualche secolo prima, persino i senesi in costume e ammalati di noia, reagirono all’infinito languore correndo dietro ad una palla di stoffa a colori. Tant’è che il destino ha voluto che, il gioco in questione, divenisse mondiale. Anch’io ci ho provato nella mia gioventù. Non ero un granché. Mancavo di quello che, Gianni Brera, il più grande scrittore e maestro di sport, definiva Eupalla, il soffio divino nei piedi per un bisbiglio d’amore. Il dono di chi accarezza la palla, la porta con se mentre vola all’assalto verso l’ultima meta, laggiù oltre l’uomo che, un tempo passato, era il ragno vestito di nero. Estraneo mi era il soffio. Eppure, i compagni della squadra operaia dell’oratorio San Rocco apprezzavano il mio impegno, il mettersi al servizio degli altri, l’entusiasmo, la forte passione. Più tardi, qualcuno seppe dare un senso perfetto a quel tipo d’atleta: la vita del servo mediano.
Mondiale, addio. In quel Brasile, sempre in bilico tra la disperazione antica del suo popolo e l’anelito alla felicità. Lacrime e delizie. Tristezze e gioie. O ambedue i sentimenti assieme. Uniti come due corpi avvolti nell’ebbrezza della danza, lassù, al Pan di Zucchero, la vetta oggetto dei sogni delle dolci fanciulle dal color cioccolato. La disfatta della torcida brasiliana sta nel fallimento del sogno. Composta da giocatori emigrati nelle squadre europee, ha smarrito il suo essere: quella esplosiva felicità con cui ognuno rincorreva la sfera di cuoio per portarla con se sul monte di olimpia al cospetto di Giove. Ricordo Pelé e Socrates, Amarildo, Didì, Falcao e Vava. Ma, ciò che più e rimasto vicino al mio cuore, è Garrincha, un meticcio svanito nel nulla da cui assurse alla vita un giorno lontano in un luogo sperduto del Rio delle Amazzoni. Nel 1958, in Svezia, impalmò una bionda valchiria a cui donò un bimbo dal colore un po’ strano. Il giudice lo chiamò a rendere conto del fatto. E lui, felice, disse sì. Che quello era il frutto di una notte furtiva d’amore. Il suo unico maschio, oltre a sette figliole avute da diverse ragazze a cui aveva elargito uno spicchio di tempo e d’amore.
Privati dell’unico figlio della mitica dea, Neymar da Silva, il match, con l’armata dei protervi teutonici, è stato un blitzkrieg con annessa disfatta totale. La contesa seguente, tanto per rispettare la norma che vuole il confronto tra i migliori perdenti, ha avuto un’ effetto scontato. Ha vinto l’Olanda. In fondo, gli Orange, olandesi delle terre rapite ai marosi del mare del nord, ma con nel sangue i semi di mondi lontani, sono anch’essi carioca senza averne vissuta l’avita povertà. Siamo così giunti al duello finale. La coppa del mondo al più forte, o al più fortunato, tra la grande Germania e i figli della pampas Argentina, la terra dei gauchos. Li ho visti, gli eredi dei Krupp e dei Wernher von Braun, scatenare la forza compatta della Deutsche mannschaft. Il collettivo di una magica orchestra e in cui, anche al primo violino, viene chiesto di fornire il proprio servizio alla patria. Sul fronte avversario, i figli del tango, la danza dal triste pensiero. Sgomento e passione nello stringere al petto l’amata per l’ultima mossa prima che un mesto destino la porti lontana. Armando Maradona ne è stato interprete e unico erede. Un corpo tarchiato e pur tracagnotto. Il nero e ricciuto testone. E quel piede sinistro, a cui la benevola dea aveva donato il potere di parlare al balocco di gioco: la palla. A me viene un dubbio. Che i ragazzi di Albione, quel giorno, nel Messico azteco, rapiti da tanta poesia e destrezza, lo lasciarono libero di correre dietro alla gloria. Già: un guizzo a zig zag e la mano di Dios.
Ero incerto, indeciso, domenica sera. Io amo i germani, eredi di Einstein, il genio di Ulm, di Kant e Beethoven. Ma sono pur figlio dei tanti che presero il mare approdando al Rio de la Plata. Insomma, mi dissi, che vinca il migliore. Hanno vinto i germani. Non piangere, brunetto ricciuto della terra argentina. Un ultimo tango è sempre concesso a chi osa sognare.