Inaugurato il monumento all’emigrazione italiana
Fui da queste parti nel dicembre dell’anno che fu per l’inaugurazione del monumento alla memoria dell’emigrazione italiana a Ginevra. Nell’attraversare le Pont du Mont Blanc getto sempre lo sguardo verso l’isoletta ove troneggia la figura di Jean Jacques Rousseau, il filosofo del “contratto sociale”. Un gigante del pensiero destinato a cambiare, con la sua opera, il corso della storia. Eppure, la città sul Lemano sembra aver scordato il suo insegnamento, immersa com’è nel gioco degli affari e nella cura, più o meno lecita, degli interessi particolari. Le vicende della filiale ginevrina della banca britannica HSBC indicano come una piccola minoranza di avidi affaristi e profittatori continui a saccheggiare le risorse dei popoli, sfuggendo ai controlli degli apparati nazionali. E quando questo succede, la reazione è spesso oscurata dalla peggiore ipocrisia, come se nessuno sapesse alcunché e tutto procede come prima.
Per chi non ha occhi – metaforicamente – per leggere basterebbe rispolverare qualche passata opera di Jean Ziegler, il ginevrino, come dice un suo scritto, Una Svizzera al di sopra di ogni sospetto, per capire cosa si muove, da un secolo e più, dietro le vetrate cristalline dei palazzi affacciati sulle sponde del lago. Sto divagando. Ma il ricordo di quella giornata è, per me, oppressivo. Di lì a pochi giorni avrei vissuto un momento particolare e drammatico della mia esistenza. Il segno premonitore fu quello sguardo annebbiato a Rousseau, come se l’insegnamento del maestro si fosse perso nel vento della storia e nulla valesse più se non la volontà di trascinare le mie stanche membra verso il luogo della cerimonia inaugurale. E invece sono ritornato, più forte e impegnato che mai , il ventotto febbraio scorso, all’inaugurazione del monumento alla memoria dell’emigrazione italiana eretto nella storica Place de Sardaigne di Carouge. Sono tutti là, i cari amici conosciuti nel corso di decenni di appassionato impegno politico e umano.
Una grande folla di uomini e donne, protagonisti di una straordinaria esperienza umana e sociale. Là, con i cappelli piumati degli alpini, a ricordarti l’epopea dei combattenti che difesero le valli alpine e al cui monumento tu rendevi omaggio mentre salivi con la tua Coppi gli impervi tornarti dello Stelvio. Là con lo sguardo fiero dei montanari della Sila o del Gran Sasso, delle alpi della Carnia e del Sardo Gennargentu, o con lo sguardo aperto al mondo dei pionieri della pianura italica, in cui lo sguardo di ognuno, si perde in un nulla lontano, oscurato spesso dalla bruma. Una cerimonia, impeccabilmente diretta da Carmelo Vaccaro, il coordinatore della SAIG, la Società della associazioni italiane ginevrine. Il monumento, una scultura di Jo Fontaine, l’artista ginevrino installato a Soral, che ha trasformato il masso di serpentino asportato dai picchi rocciosi della Valmalenco in Valtellina, terra e patria natale degli avi e dei nonni, in una ruota tesa a rappresentare,con l’ appellativo COSMOS, il corso e gli eventi della storia. La superficie di lignee falsamente concentriche, saggiamente tracciate dallo scultore, ci rinviano a una sorta di cartografia immaginaria della storia, una planetaria traiettoria attorno ad un punto, centro immaginario delle vicende di tanti immigrati che abbandonano il loro paese e si ritrovano in tanti luoghi vitali del mondo. Ci ricorda, a me così pare, il messaggio di fraternità universale al di sopra delle frontiere.
Un’opera magnifica, simbolo cristallino per un giusto omaggio alla storia degli immigrati italiani nella città di Carouge. Fra le tante autorità politiche e religiose presenti, è toccato al sindaco di Carouge, Stéphanie Lammar, inaugurare l’opera dell’artista ginevrino. Geneve, Vernier, Carouge, la trilogia dei monumenti alla diaspora italiana nella terra dei Celti. Un onore in più per Carouge, la città che ha un particolare rapporto con l’Italia. Carouge, con le radici al di là delle alpi, nel tempo in cui fu parte del regno del Piemonte e della Sardegna, sin dalla sua fondazione, ideata da Vittorio Amedeo terzo alla fine del secolo diciottesimo. Evidenti, a tutt’oggi, le tracce dei progettisti piemontesi, quell’architettura mediterranea della vecchia Carouge, tracciata dai transalpini. Carouge, ricca della sue diversità e della sua apertura al mondo. Un luogo ricco di italianità nell’universo delle moltitudini e in cui, la “ruota dai tanti cerchi,” ha trovato lo spazio della sua eternità.