Paolo Rumiz, giornalista e scrittore italiano, autore del libro “Appia” (La Feltrinelli) dove descrive il suo viaggio a piedi lungo l’antica via Appia, la via più antica d’Europa, sarà a Zurigo per raccontare
l’esperienza del suo viaggio in quella “linea di penetrazione nell’Italia più segreta”. La conferenza “L’Appia ritrovata. In cammino da Roma a Brindisi” organizzata dall’Asri, avrà luogo martedì 8 maggio presso i locali del Liceo artistico di Zurigo
Il suo lavoro di scrittore e giornalista è spesso legato alla passione per i viaggi. Da dove nasce l’esigenza di vivere i viaggi per poi raccontarli attraverso la scrittura?
Ho fatto il giornalista solo per viaggiare. Se avessi fatto il geologo, il medico o l’ingegnere, anche in quel caso avrei usato quel mestiere solo per viaggiare. Prima di essere scrittore e giornalista sono viaggiatore, perché è il modo più interessante di vivere. Non ho sempre fatto il giornalista viaggiatore, infatti soffrivo molto all’inizio del mio mestiere, ma mi è toccato fare la gavetta come tutti. Avendo la testa dura, prendendo le strade giuste, facendo delle scelte mirate, sono riuscito a realizzare il sogno di fare il giornalista viaggiatore.
Sin da bambino sognavo di viaggiare, e una delle cose responsabili di questa passione, vivendo a Trieste, è stata la vicinanza del confine e il fatto che a pochi chilometri da casa mia cominciasse un mondo diverso mi eccitava la fantasia. Quando sono nato io era un confine difficile perché oltre, nella Jugoslavia di Tito non era ancora tornata la pace, molti hanno dovuto scappare e tra questi tanti cittadini jugoslavi di lingua italiana. Era un confine vissuto male, ma io da bambino queste cose non le capivo, lo vivevo come qualcosa di estremamente interessante.
Quando ha valicato per la prima volta questa linea di confine?
A metà degli anni ’60, avrò avuto 6-7 anni. A Trieste, anche per fare una semplice gita fuori porta, bisognava oltrepassare il confine. Ricordo questa poliziotta Jugoslava, che a me sembrava gigantesca, molto sbrigativa, svolgere questo rituale serioso dell’attraversamento del confine, con i soldati che a quel tempo ti controllavano pure sotto l’automobile. Per me la prima avventura è stata proprio l’attraversamento del confine. Sono sempre rimasto un sognatore romantico e, per un giornalista che deve fare cronaca giudiziaria o cronaca nera, non è il massimo.
Uno dei suoi ultimi viaggi, invece, è il cammino lungo l’antica via Appia, che è anche l’oggetto della conferenza che terrà a Zurigo il prossimo 8 maggio. Da dove nasce la volontà di riscoprire una delle vie storiche più importanti e più antiche d’Europa?
Perché, in ordine di tempo, era la prima via l’Europa e mi sembrava impossibile che l’Italia non se ne rendesse conto e la lasciasse marcire o coprire d’asfalto, o privatizzare. Era proprio un esempio di una bellezza all’antica.
Questa cosa mi affascinava e contemporaneamente mi indignava. Poi, quello che io non potevo pensare era che noi in realtà eravamo i primi a ripercorrerla in quel senso da almeno 2 secoli, dai tempi del Grand Tour degli anni del 700, quelli vicini a Goethe, risalgono ad allora gli ultimi resoconti di un viaggio a piedi lungo quella via, dopo la via entra nell’oblio.
Come mai?
Questi luoghi dell’Italia del sud fino al 4-500 erano stati luoghi di grande importanza, fino a quando cioè gli spagnoli non hanno imposto un regime fiscale atroce e hanno espulso gli ebrei, da quel momento in poi questa linea, che era il cuore del mediterraneo, è diventata periferica e il baricentro si è spostato verso nord. A quel punto tutti quei luoghi sono entrati in una specie di oblio. Facendo quel viaggio si ha proprio questa drammatica sensazione di un luogo che un tempo era centralissimo e ora è dimenticato da tutti.
Nella via Appia c’è tutta la storia d’Italia: l’epoca paleolitica, la preromana, Roma Repubblicana, la Magna Grecia, il mondo etrusco, la seconda guerra mondiale, il Risorgimento, è un viaggio nel tempo nella storia d’Italia, ma anche una linea di penetrazione nell’Italia più segreta. Sono luoghi segnati in pochissime guide, ma che ti fanno ancora provare il gusto di una scoperta pionieristica.
Che preparazione c’è dietro a un viaggio del genere?
La parte fisica si affronta camminando: basta partire piano e avere le scarpe giuste. Abbiamo invece lavorato molto sulle cartografie. La via Appia è molto visibile soprattutto nelle carte degli anni ’60, il che fa pensare che il massacro di quel territorio è avvenuto proprio in quegli anni e che in quel momento c’è la chiusura con la memoria e si perde il contatto con un passato secolare.
Negli anni ’60 le mappe dell’istituto geografico militare contengono ancora tratti ben indicati della via Appia che, poi abbiamo scoperto, sono stati o asfaltati o privatizzati.
Quali aspetti hanno reso unico questo viaggio?
Unico per me personalmente perché non avevo mai fatto un cammino così lungo a piedi. Ma soprattutto unico perché avevamo ritrovato una via: abbiamo restituito al Paese un bene abbandonato, perduto. È questo il senso del viaggio, che non ci era chiaro all’inizio, pensavamo solo di ripercorrere una via, invece andando avanti abbiamo avuto l’impressione che eravamo noi a tirare fuori questa via. Dà un’idea di come oggi si viaggi in diversi luoghi e ci si dimentichi di quello che abbiamo sotto il naso, come la via Appia che è sotto il naso di tutti. Quando abbiamo portato al ministero le nostre carte, si sono arresi difronte all’evidenza di questa via dimenticata.
La cosa che è rimasta, soprattutto, di questo viaggio è stata questa sollevazione popolare, la nascita di un movimento attorno a questa riscoperta.
In un’epoca dove gli spostamenti si velocizzano sempre di più, lei sceglie di viaggiare in una maniera alternativa, a piedi, come nel caso della via Appia, o, prima ancora, con la bici, favorendo una ‘mobilità lenta’. Cosa può scoprire il viaggiatore che sceglie di intraprendere un viaggio con queste modalità?
Il gusto della riscoperta è molto più grande e le possibilità di incontro si moltiplicano, perché quando tu viaggi a piedi o in bicicletta, incontri una quantità nettamente superiore di persone che quando ti muovi in macchina, e questo significa avere anche tante notizie in più.
La stessa cosa accade se usi i mezzi pubblici, quando ero in Russia era una meraviglia incontrare le persone sui treni e sui bus, c’era sempre qualcosa da scrivere.
Quali sono i suoi progetti futuri, ci sono viaggi in programma?
Sono due le cose che mi piacerebbe fare, una è narrare liberamente, storie inventate, lavorare alla narrazione in senso più puro, anche perché ho dei nipotini; l’altra è conoscere meglio il territorio in cui abito e legarmi di più a questa terra da cui sono partito.
Sono convinto che un buon viaggiatore non è tanto colui che macina kilometri, quanto chi sa ascoltare la voce della strada. Se uno riesce ad ascoltare la strada anche stando fermi è un viaggiatore a tutti gli effetti e sarà anche un buon narratore.
Eveline Bentivegna