È domenica 15 luglio 2018 dell’anno del Nazareno che raccontò al mondo vivente di allora nelle terre di Galilea sotto il giogo romano il sogno di un altro destino possibile a quello della sottomissione ai padroni venuti da terre lontane e ai sommi sacerdoti in combutta con i mercanti del tempio, trasformato e ammorbato in una spelonca di ladri come sta scritto nel Capitolo 19 del Vangelo secondo Luca.
Le sette del mattino sono annunciate dal suono delle campane della linda chiesa costruita a dominare il villaggio dei contadini, soggiogato, oggi, da un confuso assemblaggio di vetro cemento che trasforma il suo skyline e annienta la memoria di quello che fu. Gli uffici delle banche e degli affari, popolati dagli uomini in bianco e nero, anche nelle afose giornate estive di un mese di luglio particolarmente torrido, (ogni riferimento alla squadra pallonara della mole, è puramente casuale) hanno cambiato la poesia agreste del bel tempo antico con il tintinnio delle monete planetarie.
Percorri pochi passi verso la stazione ferroviaria, oramai inadeguata a servire la nuova clientela affaristica, e vieni aggredito dal fiume di notizie borsistiche in progressivo aggiornamento e bene in vista sulle vetrate dei palazzoni, tutti in parata come plotoni romani, quasi li avesse ideati un unico architetto prigioniero di una sua maniacale e babilonica pazzia.
Ho divagato, forse preso dalla nostalgia della mia fanciullezza estiva sull’alpe Prenzera nella beatitudine dell’abbraccio più che affettuoso del nonno Ernesto che mi raccontava le peripezie vissute in gioventù – era nato nel 1870 del diciannovesimo secolo – nelle miniere carbonifere dell’impero americano prima della tragedia di Monongah ( mille vittime e almeno cinquecento di nazionalità italiana) del 6 dicembre 1907. Tornò pochi anni prima – e così sopravvisse, il nonno – per la nostalgia dei suoi monti ove il tempo era segnato dall’eternità del suo scorrere cosmico.
E pur tuttavia, torno al presente di un giorno che non sarà qualunque nella storia sportiva del pianeta.
Già vedo galli e croati scaldare i muscoli per l’ardua tenzone. Lassù, in quella Mosca che si è presentata al mondo – come le altre città della madre Russia, forse troppo grande per il piccolo uomo – con la bellezza misteriosa del Cremlino e l’immensità della sua piazza rossa in cui sfilò l’invitta armata che annientò il nazismo per poi affossare i sogni di eguaglianza e fraternità nel fallimento di una utopia divenuta totalitaria e fallace.
Mondiali festosi, arricchiti da una partecipazione gioiosa di popolo senza uguali nel passato.
È la Russia che vorremmo sempre vedere: accogliente, pacifica, ricca di una serenità che ha positivamente destato l’attenzione del mondo.
Francia o Croazia, per l’alloro della vittoria?
Beppe Severgnini, il giornalista del Corriere della Sera, di cui ho una grande stima, ha scelto la Croazia.
Per una volta, non sono d’accordo. Il solo pensiero di condividere l’opinione di Matteo Salvini – l’annuncio del suo arrivo a Mosca per gufare la Francia – ha ulteriormente rafforzato il convincimento.
Al nazionalismo revanscista croato, risorto dalle ceneri della disgregazione iugoslava, presente anche in alcuni componenti della squadra nazionale, antepongo il pensiero illuminista di un popolo che annunciò il tempo e la ragione dei lumi antesignano della rivoluzione con i tre sostantivi che cambiarono la storia del mondo. Agli ustascia, nostalgici fascisti di Ante Pavelic, tuttora presenti nel panorama politico e culturale della nazione croata, rispondo con “Liberté, Egalité, Fraternité”, e il canto della marsigliese che si alzerà sino a notte fonda sulle rive della Senna e sugli Champs Elysées.
Dirà il lettore: in fondo, è solo una partita di calcio.
Non so che rispondere se non con un: è anche una partita di pallone.
Ma è tale se si rifà alla gioia di ventidue prodi che rincorrono la palla con l’obbligo di non afferrarla con la mano salvo che per il guardiano dell’ultima scena.
Si dice che furono gli inglesi a trastullarsi per primi con un pezzo di stoffa e di cuoio rigonfi, tanto per vincere la noia dell’attesa infinita dei caldi raggi di sole. Ma toccò ai carioca – e spesso agli azzurri – rincorrere la sfera al ritmo di samba e ballata per rivivere il sogno.
E allora, galli o croati? Ha vinto la Francia del “culturao meravigliao”. L’ha accompagnata Atena, figlia di Zeus, nella corsa attorno all’Arc de triomphe verso la gloria.