Come è strana la vita?
Ho vissuto e condiviso momenti di grande solidarietà umana nelle terre di questo nostro mondo che, all’alba del nuovo millennio, sembra aver perso il senso vero dell’esistenza, del perché e del percome siamo stati chiamati a condividere questa straordinaria e misteriosa avventura insita nel segreto dell’universo.
Piccoli uomini che si muovono nel nostro minuscolo habitat guardando all’insù verso l’immensità dei buchi neri ove forse vivono esseri più intelligenti e solidali di noi.
Per noi, cittadini del secolo ventunesimo, persino diecimila anni sono uno spazio inesplorato su cui hanno indagato i sapienti del nostro mondo pensando di scoprire il senso della procreazione e della vita: Einstein, Darwin, il Nazareno e molti altri ancora.
Per l’universo, cento, duecento, trecentomila anni, sono il nulla sui cui si perde la nostra capacità di svelare la profondità del mistero.
In fondo, furono bellissime le frasi di Neil Amstrong – un piccolo passo per l’uomo, un grande balzo per l’umanità – nell’attimo in cui mise il primo piede sulla luna. Era venuto a bordo di una fragile navicella senza la certezza di poter tornare a raccontare l’avventura agli umani rimasti in trepida attesa nelle città e nei villaggi del nostro pianeta.
Sarà per il tempo che scorre inesorabile verso il naturale compimento della mia esistenza terrena, o per quella segreta tristezza che mi accompagna da sempre senza che abbia potuto spiegarmi il perché di quel pessimismo che ha scandito la mia vita, sta di fatto che da alcuni anni vado a ritroso nel tempo a ricordare fatti e avvenimenti che hanno contrassegnato il vissuto di quelli che hanno condiviso, nello scorrere del tic tac, le tante esperienze storiche e umane di ognuno.
Ricordo Marco, il giovane abruzzese che assaliva l’abete nella allora selvaggia foresta di Le Bourg-d’Oisans.
Mario, il garfagnino, precipitato con la sua gru sulla provvisoria baracca del cantiere in costruzione a Bengasi, nel golfo della Cirenaica. Miracolosamente sopravvissuto al crollo, piange per la sciagurata distruzione della gru. (l’amore per il lavoro e l’orgoglio della professione).
Giovanni, il cuoco del cantiere, figlio delle montagne bellunesi, che mi confessa il dubbio sulla paternità del settimo figlio in arrivo. Non può essere suo, ma forse di un religioso troppo intraprendente con sua moglie per poi concludere che, forse, è meglio lasciare le cose ognuna al suo posto senza ulteriori indagini. Afferma, presumo, saggiamente: scontrarsi con chi ha studiato troppo è sempre pericoloso.
Martin, l’ingegnere berlinese, che nei momenti celebrativi in corso d’opera, dopo aver bevuto qualche bicchiere di Chianti o Merlot di troppo, scarica il residuo terrore vissuto da lui, giovane sedicenne in armi, nelle ultime ore del conflitto nel maggio del ’45 del secolo che fu. Colpito dalla micidiale Katiuscia dell’armata rossa, fatto prigioniero, è condotto ad espiare le colpe dei suoi malvagi governanti nelle fredde lande della lontana Siberia.
Sopravvisse il giovane, ritornò a studiare, per poi approdare in Svizzera a liberare l’anima e il corpo in un canto, al tempo glorioso e disperato, dell’armata in marcia verso la disfatta del Don.
E per ultimo Peter, il vecchio ed il suo cane, lo vedo da ormai dieci anni e più.
L’eterno giaccone da invitto soldato che arriva alle ginocchia, pantaloni, che definire un poco lordi e lisi, è un eufemismo, stivaloni dentro cui è forse rimasto qualche sassolino di troppo, e quel cane alano dall’irto pellame al guinzaglio.
Puntualmente – siamo in Svizzera – alle otto di mattina ed alle 18 della sera, salgono assieme verso la ripida erta che porta a Schindellegi per poi ripiegare verso il maso, la loro dimora. Li vidi accarezzati dal soffio del favonio, incedere con passo ardito, da caporale austriaco prima della disfatta di Vittorio Veneto.
Fianco a fianco come Don Chisciotte e Sancho Panza nell’opera di Miguel de Cervantes.
Ma ogni anno – che dico?- ogni giorno più insicuri, meno alteri e fieri.
Li ho osservati l’ultimo lunedì di questo prima decade novembrina.
Il vecchio, ingobbito e dall’incerto incedere, il giaccone sempre più lacero e l’alano al guinzaglio, dal passo periglioso che sa di implorazione e immane fatica.
Lo guarda, il vecchio, e sembra imploralo. Ti aiuto, amico mio, per l’ultima tua meta.
Il vecchio e il suo cane: due essere viventi e solidali, che hanno scandito, nel corso di un decennio, lo scorrere del tempo tra i buchi neri della vita.