Più che ad un concerto, con “Al Centro” tour, assisteremo ad un vero e proprio evento musicale che porta la
firma di uno dei più importanti artisti italiani: Claudio Baglioni. Le sue canzoni hanno accompagnato intere generazioni e sarà così per ancora tanto tempo! Il 7 aprile Claudio Baglioni si esibirà all’Hallenstadion un magico e attesissimo ritorno del cantautore romano a Zurigo
Come hai ideato questo grande show e quali sono state le “coordinate” per la scelta della scaletta?
È una storia vera – la mia – e mi sono reso conto subito che l’unico modo di raccontarla sarebbe stato partire dall’inizio. Da qui l’idea di una scaletta cronologica. Anche perché io sono cresciuto con le mie canzoni e loro sono cresciute con me: loro hanno cambiato me e io ho cambiato loro. Seguire la cronologia è una prima assoluta. Nessuno l’ha mai fatto. Forse anche perché non tutti hanno un repertorio in grado di sostenere una sfida del genere. Ma il fatto è che pensieri ed emozioni hanno una loro evoluzione e così anche le canzoni che li incarnano. Senza i brani che le hanno precedute, “Strada facendo”, “E tu come stai?”, “La vita è adesso” e “Mille giorni di te e di me” – solo per fare qualche esempio – non sarebbero mai state le stesse. E nessuna di loro né delle altre sarebbe mai nata senza “Questo piccolo grande amore”. Seguire questa evoluzione, questa ‘doppia crescita’, mi è sembrato fondamentale. Poi, dato che la musica ha sempre rappresentato il centro della mia vita, ho pensato che fosse giusto metterla “Al Centro”, sia idealmente che fisicamente. Ecco il perché del palco centrale, che riduce le distanze al minimo: tutti vedono meglio e, soprattutto, sentono meglio. L’amplificazione, infatti, viene distribuita in modo molto più capillare e si può puntare più sulla qualità che sulla quantità del suono. Senza considerare che lo spazio scenico è più grande e modulare, e può assumere forme diverse, diventando uno dei protagonisti dello show. Tutto questo dà vita a una sorta di “teatro totale”: suoni, voci, luci, immagini, coreografie e performance, si fondono alla musica, per renderla ancora più capace di farci sognare.
50 anni di musica italiana, dai vinili ai cd fino alle piattaforme digitali e i social, eppure il tuo successo non è mai stato intaccato. Qual è il segreto?
Non credo ci sia un segreto. Non esiste una ricetta per il successo, altrimenti tutti la seguirebbero e ogni disco, film, spettacolo o libro, sarebbe un trionfo. Non è così. Purtroppo. O, forse, per fortuna. Credo che la cosa importante sia rimanere sé stessi. Senza barare. Senza bluffare. E, per farlo, non bisogna mai smettere di cambiare. Del resto, crescendo, cambia il nostro modo di vivere le cose e, di conseguenza, quello di raccontarle con le canzoni. Inevitabile, dunque, che cambino anche le canzoni. L’importante è dire quello che si ha da dire senza bluffare; rimanere autentici. Dico spesso che le fake news possono anche fare il giro del mondo, ma un “fake artist” non riuscirebbe a fare nemmeno quello del proprio isolato. Se il pubblico non mi ha ancora mostrato il ‘pollice verso’: un motivo ci sarà. Mi fido di lui. E faccio di tutto per far sì che lui non perda fiducia in me.
La tua musica, che rappresenta la tua storia personale, è diventata la storia personale e a volte anche intima di migliaia di persone. Sei consapevole di aver scritto e cantato la colonna sonora della vita di almeno tre diverse generazioni?
No. Ma se è davvero così, ne sono emozionato e felice. Credo che la mia voce si sia mescolata a quella delle persone che hanno amato e che amano le mie canzoni. E credo che questo mescolarsi abbia dato vita a una voce comune: la ‘nostra voce’. Una voce che – partita all’inizio degli anni ’70 – è arrivata fino a qui, ancora piena di cose da dire, perché il piacere di incontrarsi e raccontarsi non è mai venuto meno. La canzone è un figlio e, come ogni figlio, ha due genitori: chi la scrive e chi la ‘riscrive’, ascoltandola e facendola propria. Chi ascolta restituisce all’artista le canzoni, arricchite di nuovi contenuti, nuovi significati, nuove emozioni. È questo dialogo continuo che consente alle canzoni di rimanere vive e – pur rimanendo sempre le stesse – di continuare a cambiare e, quindi, a essere attuali. A vivere, cioè, nel presente e del presente e a non perdersi nel passato fino a spegnersi. Altrimenti non si spiegherebbe come mai canzoni che hanno cinquanta, quaranta o trent’anni – “Questo piccolo grande amore” ne ha 47, “Strada facendo” 38, “Mille giorni di te e di me” 29 – ‘suonino’ così bene ancora oggi. La ‘colonna sonora di almeno tre generazioni’ – come dici tu – non l’ho scritta io. L’abbiamo scritta insieme. Per questo è così bella.
Sei già quasi alla fine di questo tour, tirando le somme, cosa ti ha dato questa nuova e impegnativa avventura musicale?
L’energia necessaria a ripartire. Ad andare, ancora una volta, oltre. O almeno a provarci. Sono convinto che l’unico modo di meritare la fortuna – e io ne ho avuta tanta – sia quello di rimettersi in gioco, alzando ogni volta l’asticella della qualità. Anche perché il fascino di un’impresa è sempre proporzionale al rischio: più grande il lui, più grande lei. È questo ciò che dà senso al mio lavoro. E solo così riesco a viverlo e ad amarlo, ogni giorno come l’ho amato il primo giorno.
Ogni canzone è un universo a sé, racchiude un momento e una realtà, porta messaggi ben precisi. Quale tra i tuoi brani custodisce il messaggio che più di tutti è arrivato al pubblico cogliendo il tuo pensiero?
Il ‘messaggio’ non è affidato a una canzone in particolare ma al loro insieme. Come in un puzzle: ogni tessera è parte dell’immagine. Così, ogni canzone è parte del messaggio e aggiunge qualcosa in più. La differenza è che mentre, sulla scatola del puzzle, si vede quale sarà l’immagine che verrà fuori quando tutte le tessere saranno al loro posto, non sai mai che messaggio daranno vita le tue canzoni. Non solo perché quel messaggio cambierà, arricchendosi continuamente di nuove sfumature. Ma anche perché – come ho detto prima – io faccio solo una parte del ‘lavoro’. L’altra parte la fa chi ascolta, regalando alla canzone i propri pensieri, le proprie emozioni, il proprio ‘messaggio’. Il ‘messaggio’, in realtà, è questa fusione. Più lei è vera, profonda e intensa, più il messaggio è bello e vale la pena di essere condiviso.
Un salto nel passato: nel 2010 eri in Svizzera per il tour mondiale “Un nuovo mondo” e hai incontrato il tuo pubblico, non solo attraverso il palco, ma anche da più vicino con un interessante incontro con gli italiani all’estero. Non tutti gli artisti si ‘concedono’ al pubblico così apertamente. Cosa ti spinge alla ricerca di un confronto ravvicinato con i tuoi ammiratori?
“La vita è l’arte dell’incontro”, diceva il grande Vinícius de Moraes. Aveva ragione. Se non ci si incontra, non c’è vita. E se non c’è vita, non c’è arte. Non rinuncerò mai all’incontro con le persone con le quali abbiamo fatto questo pezzo di strada insieme. Per questo amo così tanto il live. Perché la musica vive davvero solo quando chi suona e chi ascolta si trovano gli uni di fronte agli altri. Cos’è un concerto se non un incontro? Un momento nel quale le distanze, finalmente, si annullano e ci si ritrova vicini fisicamente e non solo virtualmente? Quell’incontro fa vivere la musica e la musica fa vivere noi. Rinunciarci sarebbe rinunciare alla bellezza. La cosa della quale c’è più bisogno in assoluto.
Uno sguardo al futuro: tra altri 50 anni, quale sarà la canzone di Claudio Baglioni più cantata?
Quella che avrò scritto per celebrare il tour “Di nuovo al Centro”, nel quale ci ritroveremo per festeggiare, insieme, i secondi cinquant’anni di musica. Mi raccomando: non mancate!
Eveline Bentivegna
foto: Angelo Trani