In viaggio nelle terre d’Alsazia, la Lorena e il Nord-Pas- de-Calais
Nel solco della memoria. Per ritrovare il seme che ha resistito alle gelate della storia del secolo ventesimo.
Sono, come sempre, in viaggio. Adoro il treno sin da quando sentii lo stridio delle ruote sulle rotaie del vagone terza classe che riportava a casa mio padre di ritorno dall’Australia ove aveva cercato, nel dopoguerra di una disperante povertà, la possibilità di un migliore avvenire per se e la sua amata famiglia.
Non poté realizzare il suo sogno.
Quella maledetta malaria contratta al servizio della benemerita in Abissinia negli anni della costruzione dell’impero d’argilla, modello fascista, gli impedì poi di reggere al caldo tropicale delle piantagioni di zucchero del Queensland.
Fu proprio in quel preciso momento che scomparve dai miei occhi la littorina delle dieci della sera che , due anni a prima, rapì il babbo per portarlo verso una nuova avventura.
Memoria e ricordi.
Quando viaggio, è successo domenica 4 febbraio sulla rotta Zurigo – Bruxelles, nel primo mattino dal freddo siberiano, mi sistemo nello scomparto più silenzioso, e abbandono, tra un dormiveglia e l’altro, la mente ai ricordi di una oramai lunga vita.
E per l’occasione il pensiero va alle terre d’Alsazia e Lorena ove, nel corso dei decenni, ho svolto parte della mia attività associativa, culturale e politica.
Chissà chi troverò a Strasburgo a salutarmi oltre all’amico Angelo, ormai quasi più di un fratello?
E chi sarà mai ad accogliermi ad Arras, Hayange, Florange, Thionville, Romabas?
E forse, sono venuti dal vicino Lussemburgo, i compagni con i quali firmammo gli accordi intersindacali tra l’’Italia e il Principato che tanti vantaggi, salariali e sociali, produssero per le lavoratrici e i lavoratori trans frontalieri.
Terre queste, in cui si è costruita l’epica storia delle miniere del nero carbone che fu, nel tempo, la materia prima per riscaldare i casolari e accendere le fornaci per produrre l’acciaio della moderna società industriale.
Tempi moderni, direbbe il grande Charlot. Tempi di lupi ove non vi era pietà per chi veniva abbandonato dal fato e periva, laggiù nel pozzo, ove una malvagia scintilla aveva scatenato l’inferno annientando la vita di tanti umani minatori.
Ricordi e ancora ricordi.
Vitry e l’Umberto Casciano, la cravatta color mattone e la borsa di un nero con le macchie a pois per l’usura del tempo, in cui custodiva, quasi fosse la bibbia, il libretto chiamato Cahiers de doléances, ovverosia, le rivendicazioni da portare a Roma perché fosse chiaro al colto e all’inclita il dovere di agire.
Fui io a ricordarlo in quella chiesa stracolma.
di tanti compagni di vita e lavoro.
E fu per me come porgere il saluto al maestro di vita.
A lui che, in gioventù, conobbe la guerra, la prigionia e Auschwitz.
Alla termine di una così intensa cerimonia d’addio, mi avvicinò un vecchietto con fare compunto e le lacrime agli occhi. Grazie Monsignore, mi disse, per quello che ha detto di Umberto.
Monsignore? Vuoi vedere, pensai, che hai sbagliato la scelta di vita? Mi scappò, per non deluderlo, un grazie mio caro.
E Andrea e Mario , Daniele e Alberto che ha raccolto il timone per continuare un impegno, una innata passione di fare del bene ovunque tu trovi un umano che ha bisogno di te.
Ricordi e ancora ricordi.
Rivedo Luigi e Angela, la madre dei suoi sei figli, l’energia che abbaglia persino nello stringere la mano callosa. E Lucia, Rosaria Francesca, il marito di lei, devastato dal morbo di Parkinson, che ha voluto essere presente, per dirmi: ti saluto per l’ultima volta. Non so cosa dire se non un accenno d’augurio frenato da un lungo, affettuoso abbraccio.
Francesca, già che ci sei………
Mostro il flyer con quel mio viso tra lo stanco e il pensieroso per la difficoltà dell’impresa.
Ed Ella mi arresta. So tutto, mon amì, e tutto finì lì.
Una festa. Una grande folla. Sono venute le famiglie al completo. È per questo che il salone risuona dei gorgheggi dei piccoli intenti a rincorrersi felici tra i passi di ballo del walzer più antico delle nonne, dei nonni e dei padri.
Come sono belli questi piccoli che non hanno conosciuto gli stenti dei nonni e degli avi!
Quassù vive l’Italia dei forti che hanno avuto coraggio riscattando se stessi e quel tricolore a cui sono rimasti avvinti come l’edera al muro maestro dell’antico casolare.
Ciao a tutti, miei cari,
Ritornerò. A raccontarvi come sempre un’altra storia e per vivere con voi una bella giornata italiana.