Provo una strana sensazione nel percorrere le poche centinaia di metri per raggiungere la stazione.
La prima domenica mattutina novembrina, nella penombra di un’alba che tarda a venire, non invoglia il cuore a guardare con entusiasmo al futuro che mi e ci aspetta.
Eppure e all’apparenza, tutto sembrami bello e buono.
Poco più in là, sulla facciata del grande palazzo color mattone, brulicante ogni giorno di una folla stordita dalla vastità dell’offerta di ogni bene, talvolta futile e superfluo, vengo attratto dai lustrini accecanti che pendono dall’alto ad annunciare le prossime festività natalizie. Siamo solo ad inizio novembre, perdio! E tuttavia, la modernità del pret-à-porter ha il sopravvento sullo spirito che annuncia l’arrivo di Gesù, il Nazareno, come se il suo messaggio fosse solo un rito da perpetuare ogni anno, tanto per non farci arrossire dalla vergogna per aver smarrito la grandezza del verbo d’amore e fratellanza che Lui ci ha trasmesso. Ogni grande e piccolo borgo di questo nostro occidente, accecato da un falso cristianesimo pagano, addobba le vie sull’esempio degli Champs-Elysées parigini senza accorgersi che dietro le pareti dei palazzi sta solo la miseria di chi ha chiuso le porte all’accoglienza (Amal Hussain, il simbolo della cattiveria umana) dei disperati in cerca di una goccia di solidarietà umana.
Scorro le notizie portate dal grande fratello, eternamente acceso con un occhio sul mondo.
Mi arresto all’Italia.
Alla terribile sciagura che ha colpito il nostro Paese: dal nord friulano veneto, passando per quella che fu, poche settimane or sono, la splendida costa ligure, per arrivare a Palermo, devastata dalla furia degli eventi naturali, con i suoi lutti, e quella che fu la conca d’oro, ridotta ad un ammasso di rovine.
L’Italia ritrova la sua unità nel dolore per le incalcolabili perdite umane e materiali.
Nel frattempo, la politica, non mostra grande attenzione alla furia devastatrice degli eventi, interessata com’è a rimpallarsi le colpe dei ritardi: sul perché ed il percome nulla si è fatto per salvaguardare il territorio, per meglio attrezzarlo a difendersi dalle calamità naturali che fanno parte – penso al susseguirsi dei fenomeni sismici – della storia ciclica della penisola.
Vado a Ginevra, all’incontro con il mio popolo: donne, uomini, lavoratrici e lavoratori, in età avanzata o giovani della terza generazione degli emigrati che varcarono i confini della Patria con in mano l’unica grande virtù: un cuore immenso e la maledetta voglia del fare per sfuggire al miserevole destino di una terra che, pur tuttavia, amavano più di se stessi.
Troverò gli amici di una vita di impegno politico e umano che riassumerò, per obbligo di spazio e memoria, in due nomi, Antonio e Maria.
Tanti di loro li conobbi nel corso di quel 1980 del secolo scorso, il tempo in cui dedicammo ogni nostro impegno a costruire gesti di solidarietà verso il popolo irpino colpito dalla tragedia del devastante terremoto.
Accogliemmo decine di giovani nella città della riforma calvinista e del “Contratto sociale” di Jean Jacques Rousseau, scritto nella quiete dell’isolotto che sembra farsi cullare dall’onda amica del suo lago. Vado a Ginevra a salutare il corpo degli alpini che si coprì di gloria nel corso della guerra patriottica del ’15 -18 sulle rive del Piave e l’erta del monte Grappa. A ricordare i caduti italiani in ogni conflitto nella speranza che, nei secoli a venire, i popoli ed i loro governanti, saranno più saggi e solidali per evitare gli eccidi frutto dell’odio e della sete di dominio.
Al cimitero di San George per recuperare la memoria davanti al monumento dei caduti italiani e dentro la cappella, dalle cui vetrate ti arriva la carezza del raggio di sole ad indicarti il mistero della vita
Vado a Ginevra come se nulla, nel frattempo, fosse successo a cambiare il corso della mia vita.
Ci torno da semplice cittadino a portare un messaggio di vicinanza, consapevole che ognuno di noi porta un mattone per costruire la storia del tempo che viviamo.
Eppure, ancora non mi rendo conto che una pur straordinaria vicenda umana ha avuto il suo fine ed è arrivata l’ora di allestire un bilancio.
Torno a Ginevra con l’animo triste di chi vorrebbe essere altrove, lassù, oltre il burrone su cui troneggia la chiesa del paese natio con accanto il luogo ove riposano i più che hanno vissuto il tempo della loro vita.
Lì stanno i miei cari, a cui l’ebreo errante (me stesso) in cerca del suo passato, trova la forza per costruire il futuro del tempo che verrà.