Anche il colosso farmaceutico Pfizer rinuncia: troppi investimenti per risultati deludenti
L’annuncio dalle colonne del Wall Street Journal: anche la multinazionale farmaceutica Pfizer getta la spugna e sospende le ricerche sui nuovi farmaci per fermare l’Alzheimer e il Parkinson. Già in passato un altro colosso farmaceutico, la Merck, aveva rinunciato, sulla scorta delle stesse considerazioni secondo le quali a fronte di ingenti capitali investiti nella ricerca, non si è riusciti ad avere risultati degni di nota o in grado di arginare il decorso delle malattie. Pfizer annuncia comunque di voler deviare le sue risorse su altri campi di ricerca.
Ad essere affetti da demenza decine di milioni di persone nel mondo; solo in Italia, sono un milione, di cui il 60% almeno affetto da Alzheimer: tutte persone con deficit neurologici e della memoria che fanno una grande fatica a compiere i gesti della vita quotidiana, hanno notevole difficoltà ad orientarsi, e spesso infatti si perdono, e faticano a ricordare, perdendo quasi del tutto la memoria a breve termine. Qualche beneficio, nelle persone con problemi di demenza, si ottiene con ausili quali la domotica, la musicoterapia, l’impiego di animali domestici (pet therapy), i percorsi facilitati e gli ambienti ricreativi, mentre i farmaci sperimentali nell’ultimo decennio hanno ripetutamente fallito nel rallentare la malattia che cancella la memoria. Se trovare antidoti alle amnesie e al deterioramento mentale sembra essere un’impresa disperata, Pfizer assicura però di voler continuare a investire nello sviluppo di medicine contro il dolore e le malattie neurologiche.
Alla fine dello scorso anno, un farmaco anticorpo infuso nei corpi dei pazienti, prodotto da Eli Lilly, non ha avuto un effetto significativo sulla malattia. In precedenza, nel 2012, anche un farmaco messo a punto dalla stessa Pfizer, in joint venture con Johnson & Johnson ed Elan Pharmaceuticals, simile al farmaco Lilly, aveva fallito il suo scopo. La speranza è ora appesa a due studi su una pillola simile, studiata da Eli Lilly e da AstraZeneca, e un trial relativo all’anticorpo spazzino di Eisai Biogen.
Si tratta di molecole somministrabili sottocute o endovena che riducono la produzione di proteina beta-amiloide che si deposita nel cervello delle persone malate, raggiungono i tessuti per rimuovere le placche o seguono altre strade (dette ant-tau) per ottenere lo scopo. I primi risultati sono attesi nel 2019 ma ci vorranno anni per arrivare all’eventuale impiego clinico. La retromarcia del colosso farmaceutico ha smorzato gli entusiasmi per la recentissima scoperta italiana che ha individuato nella Pet, la tomografia assiale a positroni, l’indagine principe per la diagnosi precoce dell’Alzheimer, attraverso lo studio del metabolismo nel cervello. In un caso su cinque, infatti, la risonanza magnetica non dava risultati certi, secondo quanto indicato da Marco Pagani e Fabrizio De Carli del Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr).
A dicembre dello scorso anno, la Sin, Società Italiana di Neurologia, aveva annunciato il varo del progetto Interceptor, dedicato alla malattia dell’Alzheimer, messo a punto da un tavolo di lavoro coordinato da Mario Melazzini (Aifa) con l’ok del ministero. “Interceptor è il modello che identifica la popolazione a rischio, che potrà entrare nei trial di farmaci innovativi per forme iniziali della malattia; utilizza marcatori, esami e analisi, da affiancare ai test, per formulare prognosi più precise”, ha spiegato Paolo Maria Rossini, direttore dell’Istituto di Neurologia all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Roma, Policlinico Gemelli. Intanto l’unica cosa certa è che anche se sono stati condotti centinaia di studi clinici per l’identificazione di un possibile trattamento per l’Alzheimer, non sono ancora stati identificati trattamenti che ne arrestino o invertano il decorso.
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foto: Ansa