Pochi si rendono conto che l’ossessione è una cura permanente per la noia – Richard Krause
Da qualche settimana abbiamo iniziato (abbiamo? Spero di sì. Non amo il plurale maiestatis e auspico che mi leggiate e che non sto parlando da sola come i matti) a seguire il filone dell’alimentazione sana e sostenibile, un binomio che definirei obbligatorio, dal momento che, come abbiamo visto, un comportamento alimentare adeguato a mantenerci in buona salute ha come effetto “collaterale” quello di far star bene anche il pianeta (se avete dei dubbi, potete andare a riprendere i miei ultimi articoli o scrivermi).
Ho chiuso lo scorso articolo rivelandovi che moltissimo cibo viene sprecato perché ne compriamo più di quanto ce ne serva. In parte, in buona fede, perché facciamo la spesa con il pilota automatico e spesso ci dimentichiamo di averlo in casa. In larga parte però, compriamo cibo in eccesso per rispondere ad esigenze che non sono né prettamente alimentari e nemmeno di gusto personale. Rispondono, invece, ad esigenze familiari (il figlio mangia i cereali solo se sono di una certa marca), sociali (aspetta che viene l’amico a prendere un caffè, adesso prendo quel biscotto lì che ho visto che lo mangia anche la Ferragni), ma anche, spesso, psicologiche.
Non è stata una sorpresa scoprire che le domande da porsi, per capire se si soffre di shopping compulsivo o di comportamento alimentare disturbato, sono praticamente le stesse. Ve ne presento qui un breve confronto:
Come potete dedurre dalle liste qui sopra, i meccanismi alla base dell’acquisto alimentare di conforto e di comportamenti alimentari eccessivi ricalcano quelli di chi consuma le carte di credito alla ricerca di una soddisfazione che non arriva mai.
Non mi sto riferendo a comportamenti estremi, che sono il frutto di processi molto più complessi: questi automatismi scattano in moltissime persone, anche sane, ogni volta che si mangia qualcosa senza davvero apprezzarla, ma soltanto perché bisogna riempire il solco scavato da una telefonata andata male, dalla paura di una prova che si avvicina e ci paralizza, da un “no” che avremmo volentieri evitato e che siamo stati costretti a dire o ad ascoltare.
Questi automatismi ci portano a cercare, tendenzialmente, il cosiddetto “junk food”, ossia cibo processato che non solo non fa bene a noi, perché è ad alta densità energetica e di basso valore nutrizionale, ma non fa bene nemmeno al pianeta, dal momento che si tratta di prodotti con un’impronta di carbonio e idrica molto più pesante, rispetto a quella degli alimenti freschi (e sani).
Sia chiaro: io sono favorevolissima al “comfort food”, solo che secondo me questa definizione dovrebbe essere reinterpretata e rimodulata.
Mangiare bene ci fa sentire bene, anche solo dopo pochi giorni e questo diventa anche un conforto per la mente, perché ci aiuta a resistere meglio allo stress psicologico, oltre che al carico fisico. Quindi il cibo di conforto dovrebbe essere quella quotidiana rigenerazione e fonte di “energia positiva” che non ci fa cadere nella compulsione.
Il secondo modo in cui, secondo me, andrebbe usato il termine “comfort food”, è esattamente opposto all’uso che se ne fa ora. Ossia, io consiglio di mangiare qualcosa di eccezionale in un momento in cui siamo già felici (o comunque più contenti della media), sia per celebrare il momento, magari in compagnia di chi ci vuole bene, sia anche perché così andremo a staccare, dissociare, i pensieri positivi che stiamo provando da qualcosa di materiale ed esterna a noi (la merendina, le patatine, il cioccolatino). Siamo contenti a prescindere e quel cibo lì diventa un qualcosa in più, che a quel punto ci soddisfa anche se in piccole dosi e non ci fa diventare i suoi schiavi.
Che dite, sono un’utopista?
Speranzosi saluti
dalla vostra consulente nutrizionale
Dr. Tatiana Gaudimonte
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