Una levataccia. Le cinque del mattino hanno per me un certo non so che di antico. Purtroppo e per sempre. Il ventennio di vita sui cantieri: in Africa e in Svizzera. Ogni giorno un problema da risolvere.
Uno stato dei lavori da allestire. Un’offerta per una nuova gara d’appalto. E tante altre cose. Lo stretto contatto con i lavoratori. La preoccupazione per la loro salute. Perché non accadessero gravi incidenti atti a colpire i loro corpi già stanchi per le tante fatiche accumulate negli anni.
Ricordo in particolare la notte in cui fui svegliato con l’annuncio di un grave incidente in galleria. Un’ora di macchina col fiato sospeso e l’angoscia nel cuore. Fortunatamente, andò tutto bene. Diversi feriti.
Nessuno grave. È la vita di cantiere. Piena di una sua umanità sconosciuta altrove. A me, capo cantiere, piaceva la vita della baracca. Certo, una stanza privilegiata, nel senso che ci dormivo solo io. Ma era pur sempre una baracca con i servizi in comune e poco più. mRicordo quel matto di Ciccio Perrone, un sanguigno calabrese, addetto alla santa barbara. Lo specialista della dinamite in galleria.
Nei giorni di riposo, se rimanevo in cantiere, lo sfidavo a dama e al gioco degli scacchi. Non ho mai vinto una partita salvo in una occasione.
Ho sempre avuto il dubbio che fosse stata una generosa concessione. Chiesi il perché di tanta genialità. Mi rispose di aver perfezionato la capacità di gioco in galera.
Non ho mai chiesto il perché: della galera, naturalmente. Ricordo Giovanni, mona veneto addetto alla mensa.Volle parlarmi un giorno. Raccontò una strana storia.m Un figlio in arrivo e la quasi certezza che non fosse suo. Troppo amica del curato, disse della moglie. Lo consigliai di lasciar perdere. Vidi il nascituro quattro anni dopo.
La stessa testolina bionda e quel mento, già a basletta, un po’ così. Le malignità di paese fanno più male di una guerra, in quanto a ferite. Mi dilungo. E faccio bene. Così combatto la sonnolenza. Con le palpebre che tendono a cadere oscurando la visione dei tasti. Sto andando a Metz e Lille. Prendo il treno di prima mattina. Amo viaggiare in carrozza sulle strade ferrate. Ti siedi. Scrivi o leggi un libro. Talvolta i quotidiani. Sono già vecchi appena usciti dalle rotative. I progressi della tecnologia li hanno resi modelli di archeologia al quotidiano. L’ultima notizia non appare mai anche se, sfogliando le pagine, ne annusi ancora l’acre sapore dell’inchiostro.
Mi attendono a Metz i vecchi eroi delle miniere e delle acciaierie della Lorena. Se passi per Richemont o Rombas, Villerupt con il suo annuale festival del cinema italiano e dintorni , provi un senso di commozione all’apparire di quelle cattedrali mute e sorde ove hanno speso la loro vita di lavoro i protagonisti della diaspora italiana. Un ambiente attorno in cui pensi non sia mai apparso il sole. Eppure non è così. Neanche lassù, alla sommità di quelle montagnette artificiali in cui una mano caritevole ha alzato una croce con accanto un alberello, tanto striminzito e solo, da sembrare il portatore di ogni e più grande tristezza. Verranno ad accogliermi alla stazione i compagni di sempre. Lo so.
Saranno felici di ritrovarmi. Ho con loro un rapporto di grande umanità. Conosco le loro vite. Le tribolazioni. La solitudine, spesso, della loro passata esistenza. Sono stato tra loro nei momenti più lieti e in quelli più tristi. A un matrimonio di figli o nipoti. A salutare qualcuno di loro nell’ultimo viaggio verso l’ignoto. E spesso mi è toccato il compito più duro.
Ricordarlo ai parenti, agli amici di una vita, alla comunità italiana. Talvolta non ho potuto trattenere le lacrime. Bando alla tristezza. Vado alla festa. Saluterò, come al solito, i tanti presenti. Ma sarà importante il ballo in cui tutti, giovani e vecchi, nonni e nipoti, libereranno la loro gioia per essere assieme con l’Italia nel cuore. È l’ultimo numero de “ la pagina” prima delle vacanze estive. Da anni, oramai, e in questi primi sette mesi dell’anno in corso, ho scritto per lettrici e lettori storie belle e meno belle.
Ho avuto, talvolta, l’impressione che i bei racconti fossero solo quelli di un sapore antico. Per l’attualità, meglio non parlarne. Alle redattrici del settimanale, giovani e preparate, a cui va il mio particolare ringraziamento. Agli amici del giornale. A chi lo legge e apprezza come una voce di verità italiana in terra elvetica, il mio più commosso augurio. Buone vacanze e arrivederci al dopo solleone d’agosto per riprendere il cammino di sempre: raccontare le storie di questa nostra umanità.