Già prima che si definisse il profilo della cara abitazione dove aveva trascorso l’infanzia, Costantino sentì un tuffo al cuore, non diversamente da quanto gli era accaduto la volta precedente, avvicinandosi a quel luogo tanto intimo, e a cui pure andava incontro con l’inquietudine di un estraneo. E lui, che pur aveva viaggiato abbastanza sui sentieri dell’impero, componendoli in uno schema attendibile, ora si sentiva cogliere da un spaesamento di inappartenenza, nel percorrere l’ultimo tratto di via, e provò un’agitazione di morte, evocata dal timore che ogni giorno giungesse notizia dell’improvvisa caduta di Costanzo.
Né a dissipare quel malessere soccorreva il fatto che facesse ingresso a Naissus in uno splendido mattino di autunno, sotto una temperatura tiepida e un sole accogliente, che moltiplicava le tonalità di un paesaggio variegato e i profumi del mattino. Tanto era curioso, per lui che in battaglia non conosceva esitazione, sentire il battito accelerato su cui vibrava la frescura dell’aria, mentre imboccava lo stretto sentiero con la frenesia di calmare l’ansia di Elena, a cui un messaggero aveva già recato la notizia, e che di certo correva fuori ad ogni momento, impaziente di riabbracciarlo e di conoscere la sua piccola famiglia.
Insieme a quel tremore incomprensibile, quanto più si avvicinava, Costantino avvertiva riemergere altre vibrazioni dell’infanzia che vi aveva speso a escogitare forme sempre nuove di divertimento, di evasioni e conoscenza. Come quando si riversava sull’erba dietro casa, nei cupi notturni d’estate, a contare e ricontare le stelle della volta celeste. Un gioco nuovo e antico, ripetuto col medesimo incanto ogni sera, che lo incaponiva ad aggregare intorno alle costellazioni già note, come il Carro e Orione, tutto un grumo di luci, ognuna da nominare arbitrariamente, per localizzarle la sera dopo nella mappa del cielo, sempre più vasta e sempre più familiare. Fantasia, questa, che lo gratificava molto più del brivido metafisico che altri coglievano nell’inafferrabile mistero del cosmo, e che invece lui percorreva non sotto un naufragio di infinito, ma con la positiva, scrupolosa operazione con cui un comandante ispeziona le tende dell’accampamento.
La sua natura non lo inclinava alla fantasticheria oziosa, non languiva sui vagheggiamenti dell’arte, né indulgeva alle divaganti peregrinazioni metafisiche. Costantino non pensava affatto che quei corpi celesti fossero asilo di divinità, o luoghi di misteriosi quanto ineffabili prodigi, no: vi scorgeva solo un disordinato ammasso di luci che lui cercava di ordinare; non si lasciava abbacinare dalla bellezza, ma casomai dal brivido di essere in grado di ingabbiare una confusione di frammenti sparsi da sistemare in un reticolo: poiché solo dopo averne numerato le postazioni gli parevano meno aleatori; e solo dopo averli nominato a piacimento, poteva dargli valore e significato.
Una diversa, ma analoga investigazione, gli accadeva invece di compiere nelle gelide tenebre dell’inverno, quando pensava all’intero universo coperto dalla medesima massa di neve che ammantava i campi d’intorno, e sotto la cui coltre sterminata visionava un frenetico andirivieni di animali senza sentiero. E se poi il pensiero si portava sulle grandi città che non aveva mai visto, e di cui conosceva solo il nome, si chiedeva come gli uomini vi si orientassero o viaggiassero senza pista; o come i cavalli intirizziti combattessero il gelo. E allora più si faceva presso al camino, mentre le donne d’intorno gettavano alla fiamma i racconti spaventosi e affascinanti dei briganti che già progettava di sgominare da adulto. E non diversamente di come scorazzava attraverso il cielo nelle notti d’estate, quando l’inverno lo costringeva al chiuso del focolare, assecondando i guizzi della vampa, liberava la fantasia verso lande velate fino ai confini della terra, che di certo era grande, e che un giorno avrebbe investigato e compreso.
Avvicinandosi al nido da cui era partito carico di sogni e dove ritornava ricco di esperienza, Costantino considerava quanto quelle sue fantasticherie di fanciullo, pur così diverse dalla realtà che aveva conosciuto, condividevano con essa la vastità degli orizzonti, dalle distese mesopotamiche, assolate e soffocanti, al tremolare della marina alessandrina; e che l’asprezza dei monti narrati non differiva molto da quella del Tauro o dell’Anatolia. Sì, benché in maniera ancora lacunosa, ora l’aveva conosciuto abbastanza l’impero, e l’aveva percorso non come un osservatore avido di emozioni, ma come un geografo intento a tracciarne il reticolato, come aveva fatto con la volta celeste. Sapendo di avere ancora molto da percorrere, ma pronto a perseverare nel medesimo inventario delle regioni studiate sulle mappe che conosceva a menadito, e che aveva vivificato di immagini, dettagli, persone e monumenti: tanto che l’impero non gli appariva come un grafico muto, ma come una sterminata concentrazione di viventi, di cui non conosceva ancora tutti i recessi, ma che pazientemente si proponeva di comporre in un immenso puzzle, a cui ogni tassello aggiungeva un dettaglio. La sua sintetica inventiva, d’altronde, faceva sì che mai una nuova esperienza oscurasse la precedente; che mai un città si sovrapponesse alla contigua; che mai due volti si compenetrassero: tanto situazioni e paesaggi si fissavano in maniera definita nella sua memoria, da restare irripetibili e individuati. Mai un tramonto, una spiaggia o un deserto ne duplicavano altri: perché a ogni luogo o emozione Costantino associava un cirro, una rupe, uno scoglio, un’asteria, un rombo di mare, un’impennata di vento, uno schiaffo di pioggia, una curva di neve, un arabesco di fulmine. Ed era tanto attento alla percezione di sé, che, dovunque si trovasse, aveva l’impressione che ogni evenienza si producesse per lui, e si legasse a un’ora precisa della sua esistenza; e che ogni fatto si producesse davanti al suo andare, per legarsi a un momento esatto dell’esistere; e che il mondo si esibisse per lui, come se prima non fosse esistito. E se dall’immaginazione con cui l’aveva visionato quando ancora non lo conosceva si spostava a verificarlo sull’esperienza vissuta, si sentiva davvero fortificato nel credere che quell’infinito spettacolo non avrebbe potuto essere diverso; e che lui, dal confronto con la realtà, non faceva altro che edificare materialmente quanto aveva progettato da bambino.