Giorgio Napolitano invita per l’ennesima volta alla responsabilità
Va bene il dibattito alla luce del sole, ci mancherebbe, ma quello che succede nei partiti più che dibattito è un litigio continuo, si fa fatica a seguire un filo logico e soprattutto un obiettivo.
Prendiamo il Pdl. Berlusconi appare sempre più come il leader indiscusso. Questo l’avevamo detto prima della campagna elettorale, quando era tornato in prima fila per recuperare il recuperabile e ottenere una onorevole sconfitta, in vista di un periodo durante il quale qualcun altro avrebbe preso in mano il partito e la leadership del centrodestra per concorrere con il centrosinistra alla sfida per il governo dopo l’attuale legislatura. La sconfitta onorevole c’è stata, anzi, ha sfiorato la vittoria e per una serie di errori degli avversari (avevamo ipotizzato una vittoria del centrosinistra e un governo Bersani per cinque anni) il Pdl è tornato al governo con un’alleanza Pd-Pdl con Enrico Letta presidente del Consiglio.
Ebbene, da una parte ci sono i sondaggi che dicono che il centrodestra sarebbe primo in caso di elezioni politiche, dall’altra ci sono i risultati delle amministrative (parziali) che dicono che se non s’impegna Berlusconi il centrodestra perde dappertutto. Ora Berlusconi ha 76 anni e certamente non è eterno, da qui al massimo cinque anni dovrà ritirarsi. Di qui anche il progetto del leader di tornare a Forza Italia, magari con una serie di manager-imprenditori a livello regionale e provinciale che, insieme al personale politico, rilancino idee, proposte e programmi. Sarà che in Italia si va verso l’americanizzazione della politica e dei partiti e movimenti, ma la classe dirigente di una formazione politica si forma non dai potentati o da uomini indicati dal capo e messi a comandare, ma da organismi verticali (le vecchie sezioni, le Federazioni, i congressi provinciali e regionali e nazionali) che sono scuole di democrazia e di (legittime) ambizioni politiche. Poi, gli uomini migliori emergono e rappresentano la classe dirigente di un Comune, di una Provincia, di una Regione o di un Paese.
Nel Pdl non c’è nulla di tutto questo, solo lotte intestine all’ultimo coltello, paralizzanti, tenute a bada ufficialmente dal leader tuttofare e, se continua così, fra qualche anno il centrodestra scomparirà per restare a livello di presenza simbolica. Lo si vede dai risultati. Nel 2001 c’era La Casa delle libertà con Forza Italia, Lega, Udc e An. Ora An e la destra bisogna andare a cercarle con il lanternino, la Lega sta franando, l’Udc è naufragata sotto un leader inconcludente e che sta con Scelta Civica di Monti che, a sua volta, è ritornato alla Bocconi, mentre la sua creatura si sta ancor più miniaturizzando e si divide perfino sull’aborto, cioè sull’obiezione di coscienza nell’applicazione della legge 194.
Nel neonato M5S dopo tre mesi dal grande successo si sta andando al tutti contro tutti per un fatto di democrazia interna (il leader che pretende che tutti dicano e facciano come vuole lui, altrimenti sono espulsioni). Ha ragione Bersani quando nota che Il Pdl, il M5S, l’Idv di Di Pietro e in realtà tutti gli altri sono non partiti con le caratteristiche sopra citate, ma delle formazioni leaderistiche le cui fortune elettorali e politiche vanno di pari passo con quelle del leader e poi spariscono (Di Pietro) oppure vivacchiano, come è il caso della Lega del duello Bossi-Maroni.
Il Pd è l’unico partito con una lunga storia, nel senso che è un partito nuovo ma nello stesso tempo il terminale di almeno due storie: Pci e parte della Dc che negli anni hanno dato vita a nuove formazioni che a loro volta hanno generato altre formazioni che poi hanno dato vita al Pd. E’ strutturato in sezioni, Federazioni, eccetera, con un gruppo dirigente variegato e multiforme, ma specie nell’ultimo decennio sezioni e Federazioni hanno perso di smalto. Se è vero che i congressi e quello nazionale in particolare ha conservato dialettica e dibattito, è vero anche che il gruppo dirigente, forse a causa dell’amalgama mal riuscito tra Ds e Margherita, si è frantumato al punto che si sono costituiti “potentati”, secondo l’espressione di Marini, o in “filiere al servizio di una persona”, come ha detto Bersani in un’intervista apparsa sul Corriere di sabato scorso.
Il Pd è un partito che è fondamentalmente refrattario alle innovazioni. Mentre a destra ci si rinnova solo di facciata, a sinistra si ha difficoltà a staccarsi dalla tradizione storicamente rassicurante. Le ultime elezioni sono state vinte dal Pd, ma gli uomini che hanno vinto erano tutti renziani o guardano a lui come ad una nuova guida. Non è il Pd, hanno detto i commentatori, che ha vinto, ma Renzi. Però nella misura in cui il sindaco di Firenze ingrana la marcia verso la conquista della segreteria, ecco che si forma il “correntone” con l’obiettivo di bloccarlo. In fondo Renzi è avversato proprio in quanto innovatore e anche nel Pd la vecchia guardia fatica ad accettare di farsi da parte. Prova ne è che mentre fino a dieci giorni fa Renzi era considerato l’oppositore di fatto di Letta, ora che i due hanno fatto un patto (Letta al governo e Renzi al partito con lo scopo di “cambiarlo” e di essere il leader del dopo Letta) si rioganizzano Bersani e i bersaniani che tentano di saldare le varie componenti ex Ds contro Renzi e riemerge il tentativo di un governo di sinistra formato dal Pd, da Sel e dal gruppo dei grillini che si sono staccati o che si staccheranno dal M5S. Insomma, è il conflitto paralizzante di sempre.
Da questa sommaria descrizione, si capisce come da parte dei partiti ci sia una inadeguatezza di fondo ad affrontare con la dovuta corresponsabilità la crisi che rischia di gettare la gente nella disperazione, ancora di più di quanto già non avvenga. E il fatto che si parli di questa o quella misura e non di cambiare mentalità, condotta e abitudini, secondo i moniti inascoltati di Napolitano, la dice lunga su ciò che ci può attendere.