Nulla sarà più come prima; la fine di un sogno; l’inizio della fine; il suicidio dell’Europa: solo alcuni dei titoli che leggemmo sulla stampa internazionale dopo il 23 giugno 2016, il giorno in cui, la maggioranza dei cittadini britannici, espresse un pur risicato sì all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione europea.
Il clima di pessimismo sull’avvenire dell’Unione si allargò a macchia d’olio, coinvolgendo ampi settori di opinione pubblica, disorientati e preoccupati per un futuro di cui percepivano tratti oscuri e indecifrabili.
Sul voto post Brexit si avventarono i predicatori del ristabilimento delle vecchie frontiere nazionali, i nemici della libera circolazione all’interno dell’Unione sancita dal trattato di Schengen, nonché fautori di un nazionalismo bieco e discriminatorio verso ogni atto di apertura e dialogo, all’interno europeo e nel contesto mondiale.
Fu il trionfo momentaneo dei Farage, Salvini, Le Pen, preceduti da autentici reazionari, xenofobi e razzisti, quali l’ungherese Orban ed il polacco Kaczynski, per citarne solo alcuni, a cui non sembrò vero di salutare la rivincita sulla storia che li aveva ridotti ad un ruolo ininfluente e minoritario.
E d’altronde, al di fuori dell’Europa, le cose non andavano meglio.
Donald Trump, dopo l’incoronazione alla convention repubblicana,
preparava la scalata alla presidenza della potenza planetaria, preannunciando, in caso di vittoria, un cambiamento radicale della politica internazionale degli Stati Uniti.
Barack Obama: addio.
Lo slogan frutto di una totale noncuranza per quanto accade nel mondo purché non colpisca gli interessi americani: un nuovo nazionalismo in contrasto con la storia di quel grande paese, costruito con il protagonismo di milioni di uomini e donne di ogni etnia e provenienza.
I fatti odierni dimostrano, per fortuna, la fallacità di quel messaggio e tuttavia, allora, tutto sembrava volgere al peggio.
E peraltro, a est, il sogno imperiale del nuovo zar, impersonato dalla figura di Putin, poneva all’Europa risposte impellenti: quale sarà il suo ruolo nel mondo futuro retto da vecchie e nuove potenze globali emergenti?
La Brexit è sta uno schiaffo salutare.
L’alunno europeo ha ritrovato l’interesse e la volontà di riscoprire e apprendere i valori dei padri fondatori.
La reazione collettiva dopo una disgrazia.
La solidarietà dopo un terremoto. La ricostruzione economica dopo l’immane tragedia della guerra. La formazione di un pensiero solidale, civile e umano collettivo, tra popoli e nazioni lacerate e distrutte.
Hanno iniziato, a nord, i cittadini scozzesi, gelosi della loro tradizione storica e culturale all’interno del Regno e pur autenticamente europeisti, seguiti dagli irlandesi del nord.
Le elezioni olandesi del 15 marzo 17, con la vittoria dei partiti unitari, sono state un forte segnale d’ inversione della tendenza separatista.
E poi Macron.
Spazzati via i cantori della marsigliese imprigionata tra il Reno, le Alpi e i Pirenei:
l’ estrema destra, figlia di Vichy, nostalgica dell’Algeria francese, pur abbellita dalla figura dell’erede usurpatrice Marine.
E al polo opposto, Melenchon, portavoce di una sinistra chiusa a difesa di casematte proletarie per raccontare una storia superata e sconfitta.
Per ambedue i poli, è l’Europa, la nemica.
L’Europa dei suoi tanti popoli. L’Europa di settanta anni di pace e progresso.
L’Europa che guarda al mondo. L’Europa cosciente del suo ruolo, unita attorno ai suoi valori solidali e democratici.
Macron è tutto ciò.
Un politico che ha saputo vincere la sfida, raccontando la verità al suo popolo.
Un dirigente cosciente della complessità del mondo globale al cospetto della sua straordinaria trasformazione in atto: nel campo tecnologico e della comunicazione come nel sociale.
Emmanuel Macron l’europeista, successore, all’interno della Francia, di statisti che ebbero, in più momenti storici, un’innovativa visione unitaria: Jacques Delors, Michel Rocard, Valery Giscard d’Estaing, oltre a Francois Mitterrand.
La Francia ha indicato il cammino, la Germania dirà la sua a settembre e poi verremo noi.
Rilanciare l’unità europea, è responsabilità degli statisti chiamati a dirigere grandi paesi quali la Francia, la Germania e l’Italia.
E ciò sarà possibile, unicamente, con il protagonismo dei loro popoli: una nuova scrittura unitaria che parta dai valori comuni per indicare la via da percorrere nel secolo ventunesimo.
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