Di fronte a quella risposta sfumata ma decisa, Aurelio, che non ne aveva previsto gli esiti, per effetto della proibizione riprese a dolorare. Sentì che l’impedimento riattualizzava il sentire; che la delusione lo portava a fondere le scene dell’esaltazione in un groviglio, nel quale, per comune errore di prospettiva, ai ricordi belli si mescolava anche un gusto di fiele. Non poteva capire come Valeria, serena di averlo relegato in una sfera nobile, prima che il possesso scadesse a contaminarlo, accantonava un sentimento inviolato nella stima; e che se aveva smesso di amarlo come una persona fisica, lo conservava come un ideale congelato; a riprova che, oltre la separazione, una memoria può resistere nella volontà di proteggerlo, affidandosi a oggetti o segnali di episodi minimi, per gli altri incomprensibili, o squalificati come un patetico ricordo.
Pertanto, se Valeria si imponeva di conciliare rigetto e ammirazione, Aurelio, che da parte sua non aveva assunto impegni, sentiva invece per reazione risorgere gli appelli della carne; e riaperto lo sconforto per la perdita, aveva preso a ripercorrere le tappe che dal degrado portano all’indolenza. Sperando che col tempo si sarebbe assuefatto all’idea, anche se sul momento era duro accettare che lei sarebbe stata di un altro, aveva curato lo spasimo attivo del geloso con l’astratta potenzialità di rivali irreali; e per non confrontarsi con l’idea insostenibile di una figura corporea, alla quale invero mancava il tassello più penoso, aveva ripreso a considerare come salvezza la fuga nella dimenticanza elargita dallo stordimento.
Aveva così cercato appagamento in donne di conio, o in passioncelle dove scaricare una confusa libido, per infangare il corpo in amplessi da cui uscire disgustato, e meritarsi il disprezzo di sé. Ma lo aveva condotto a soddisfare i sensi anche la volontà di non sprecare i giorni nel rimpianto, e a involgarire l’inutilità dei precetti cristiani su sordidi giacigli di emergenza: ora che la fede gli risultava una mendace pigrizia, mentre l’autentica vita percorreva sentieri materiali, poiché l’amore era solo una parata di sesso. Così aveva creduto di combattere l’accidia, e aveva preso a fortificarsi contro l’introspezione col lirismo della baldoria: per surrogare il vuoto della fede perduta, e di una carriera svuotata del gusto dell’ambizione. E aveva preso a osservare con indifferenza il suo sprofondare in una gora di memorie, assecondando il languore e i sapori dei luridi ritrovi dove scendeva a abbrutirsi per crudeltà di riscatto; e di nessuna donna di cui aveva condiviso il giaciglio, nelle sordide ore degli amplessi promiscui, aveva gradito fremito che non fossero carnali. Così il tribuno, quando scendeva a colloquio con se stesso, riascoltava il gemito del cuore avvizzito, che sembrava non battere più, dimentico di ogni emozione, a ricordargli che la sua capacità di amare era esaurita, e che ormai, dopo la tenebra dell’anima, s’attendeva solo, in uno scontro o nel sonno, di chiudere gli occhi per sempre.
Trascinato dall’inerzia di durare, anno dopo anno Aurelio aveva continuato a baloccarsi con velleità d’oblio e di fine: inseguendo però, più che l’amnesia o un radicale raschio del cuore, la cattura di quei fremiti che decorano la vita. Solo che, in questa epica del ricordo, intento ad arginare la dissolvenza, sentiva che una memoria severa si accampava sulla sua volontà, senza lasciarsi controllare. E anche senza causargli dolore, operava un sottile lavorio sulle fibre; e invece di essere solo argine alla dispersione, condizionava la sua libertà di agire e si imponeva con forza tirannica. E se Lucrezia, da morta, continuava a vivere dentro di lui, Valeria, che lui credeva di aver relegato in una zona da cui trarla come una reliquia da rispolverare, si imponeva da sé, proprio quando lui tentava di aprirsi ad altri palpiti. Certo, non avrebbe mai voluto dimenticare quelle due care ombre, o eliminarne la traccia. Avrebbe però preferito che riemergessero autorizzate da lui, senza imporgli il pedaggio della loro parvenza. Avrebbe voluto ricordarle, e persino ringraziarle per l’amore che gli avevano dato; ma non desiderava che il loro ricordo tornasse ad accrescerne il tormento. E avrebbe voluto che si ripresentassero non come puntura attiva di un veleno amarognolo, ma con la levità stessa del riposo.
A dargli il colpo di grazia, però, quando aveva fatto l’ambasceria per Costanzo, era stato il colloquio con Elena, che gli aveva dato lo sconvolgente annuncio della perdita definitiva di Valeria, sacrificata, nella tessitura tetrarchica di Diocleziano, nientedimeno che a quell’energumeno di Galerio. A quella notizia Aurelio non aveva trovato alcuna energia di reazione; e aveva sentito solo levitare in sé una nuova ansietà. Aveva compreso che la memoria, di cui a torto aveva lamentato la tirannia, poteva anche farsi costruttiva, se, invece di subirla come una condanna, si industriava custodirla a conforto delle stagioni future. E pur senza rinunciare alle spinta dei sensi, intravedeva uno spiraglio di surrogato al franamento. Dovevano pure avere una causa e un fine le azioni umane, si chiedeva; e occorreva sottrarre la vita alla beffa di un’inutile parata. Occorreva trovare una logica all’assurdo, per cui, mentre si piegava all’illusione della vita, dalla meschinità della materia l’uomo si dannava a nobilitare il suo angusto orizzonte terreno. E per meglio chiarirsi questo paradosso, si era congedato dall’esercito, e aveva preso a viaggiare. Con l’animo colmo di malinconia, si era esaltato davanti a spettacoli di paesaggi e rovine. E sempre sotto la persistenza dei ricordi, aveva visto diminuire l’irruenza della passione, franare le velleità di un giorno, accolto la tirannia di un ozio che gli ottundeva il volere; e aveva percorso senza lucore la china del disincanto, non più nello stordimento dei postriboli, e disposto ormai a soggiacere al condono della memoria.
E ora che i fulgori della giovinezza avevano ceduto all’opacità del reale; ora che la fede era appena una formula di comodo, e l’amore oscillava tra sublimità ed erotismo; ora che ogni guizzo della volontà o della distrazione gli sembrava solo infliggere il supplizio dell’ossessione o gli stenti della nequizia, dove cercare ancora un senso al vivere? Ora che qualsiasi atto, compiuto o evitato, intenzionale o sbadato, gli sembrava contenere un quantum incalcolabile di pena, quale risorsa stava in lui, per attenuare, se non rimediare allo sfascio. Così Aurelio si torturò a lungo: finché, per la prima volta, non sentì nel petto un’urgenza sconosciuta, una nuova vibrazione che lo invogliava a testimoniare la sua e l’umana condizione. Non era la prima volta che si confrontava con la vanità del transitare, e con il sortilegio della pietà che argina lo sfacelo. Ma ora, ripensando alle sottrazioni definitive, realizzò l’entità delle perdite; e sentì la necessità di salvarle nella custodia di un’opera, a testimonianza di egoismo e prodigalità, e le cui vibrazioni, un giorno, forse non sarebbero cadute nell’oblio. E se è proprio con l’idea di fronteggiare l’evanescenza delle cose che gli uomini si applicano alla mappatura dell’esistenza, in un patetico sforzo di archivio, Aurelio intese allora che, così come la religione, anche l’arte intona un ostracismo alla morte.