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22 November 2024
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STORIE di Gianni Farina

Fabrizio De André, vent’anni or sono. Nel buio della notte s’ode la voce del poeta che sapeva cantare

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Un messaggio, pur triste, d’amore e fratellanza

La notte fu un accumulo di mille e più sogni.

Come un riandare all’indietro nel tempo della mia inquieta fanciullezza.

Rimembro ancora il terrore per la montagna che si abbatte sulla misera dimora ed io che corro verso il piano della valle, nell’abbraccio al fiume Adda, verso la salvezza.

Fortuna che, il pizzo Pidocchio, era, nel sogno, un ammasso di profumata polenta, il solo alimento presente nei deschi quotidiani del tempo che fu.

Fu terribile, il risveglio, e sino al momento in cui mi riassopii felice, per la fine dell’incubo, al calore delle carezze di mamma Nilde.

Un po’ come il 10 gennaio all’alba delle mie settantotto primavere.

Uno sguardo oltre le fessure delle tapparelle e il mio cuore si apre ai ricordi.

Rivedo il primo fiocco bianco che plana sul gelido terriccio della mulattiera con la leggerezza dell’aliante che si è trastullato nell’azzurro del cielo, ondeggiando alla soffice spinta del vento.

L’ho atteso, quel fiocco, come il pastore dell’alpe attende il germoglio dell’erba, lassù, oltre la malga, sua amica e compagna di vita. Vedo l’albero spoglio, adornato dalla coltre bianca, da sembrare Biancaneve in attesa del suo principe azzurro; I boscaioli, addobbati come immaginari marziani, nell’atto di far scendere a valle i tronchi d’abete accatastati sull’alto dosso, oltre le baite della Foppa. Il leggendario slittino con cui calare a capofitto dalla contrada Pedrini verso il piano, oltre il curvone in cui giganteggia il masso, possente come il mitico Ercole rimasto a memoria della furia degli eventi – così mi racconta il nonno –, nel primo novecento. E rivedo, infine, il vivere gioioso, sul pur povero desco, del volgo che sa cogliere l’attimo: l’attesa fervente dell’uomo che venne a portare il messaggio per i millenni a venire.

Sì, è proprio vero, all’alba delle mie settantotto primavere, il candido fiocco ha coperto il colle e il villaggio, mia trentennale dimora.

Un po’ tardi, e se ti astrai un attimo, la tristezza del Nazzareno la cogli ogni ora in quel che accade quassù e nel mondo.

Noto il vicino di casa intento a smontare gli addobbi della festa che fu: una accozzaglia di luci e figure da farti pensare a Rio e Las Vegas nell’ultima notte di carnevale; un cervo come il mostro del lago scozzese di Loch Ness; un Re magio da sembrarti il Caronte degli inferi; ghirigori di luci che vorrebbero essere stelle e comete, e sono solo il segno di un messaggio tradito. Mi hanno riferito, d’altronde, alcuni capricci del tizio innominato, quali il vizio di odiare tutto ciò che gli appare straniero, un nemico da abbattere e, forse, cacciare.

Ma ciò che mi dà più tristezza, è l’immagine dei due battelli in balia della violenza dell’onda del mare in tempesta, come se il mitico Ade degli inferi volesse chiamare i suoi passeggeri a raggiungere i loro fratelli già sommersi nel profondo dell’abisso spettrale.

Sono salvi, finalmente, se pur nella cecità di chi è chiamato a reggere le sorti dell’Europa e di sua figlia, la Patria italiana.

Che cosa abbiamo fatto, di male, perché fosse affidata la sorte del nostro amato Paese a questi rozzi e protervi protagonisti del tempo che viviamo?

Un ammasso di verbi e aggettivi senza senso, slogan con il profumo di un remoto passato: tireremo diritto;

I porti italiani sono chiusi; comando io e chi ne ha più ne metta. Già un suo avo – parlo dell’attuale ministro dell’interno della repubblica – pronunciò la storica frase: i nemici saranno annientati sul bagnasciuga.  Per i nostri nonni e padri non ci fu altro mezzo che asciugare le lacrime nell’esodo di massa del misero dopoguerra italiano. Il nostro, nel frattempo, è volato in Polonia per un summit con l’alter ego, il crociato Jaroslaw Kaczynski.

Sono una combriccola di falsi e biechi sovrano-sciovinisti, per dividere e sfasciare l’Europa d’oggi e quella che verrà.

Vorremmo evitare che suoni l’ultima campana, come nel racconto di Ernest Hemingway, prima della disfatta repubblicana spagnola. Nessun uomo è un’isola – disse il saggista e poeta, John Donne – e non può considerarsi indipendente dal resto dell’umanità.

Vent’anni fa, il poeta che sapeva cantare, Fabrizio De André, vergò, al riguardo, qualche umano pensiero:

“All’ombra dell’ultimo sole S’era assopito un pescatore E aveva un solco lungo il viso Come una specie di sorriso

Gli occhi dischiuse il vecchio al giorno

Non si guardò neppure intorno

Ma versò il vino e spezzò il pane

Per chi diceva ho sete e fame”.

PS.

Cesare Battisti: la belva che uccise e non chiese perdono.

Lo aspetta l’inferno delle patrie galere.

Giustizia è fatta. Evviva!!

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