Forse, dopo oltre un mese dal crollo del ponte Morandi è possibile una riflessione pacata su ciò che è avvenuto e quali possano essere i cambiamenti profondi in ogni campo perché ciò non abbia più a ripetersi.
Partiamo da alcuni avvenimenti che fanno parte della mia vita vissuta negli anni in cui, giovane tecnico, partecipai, in Libia, alla costruzione del ponte di Wadi Al- Kuf, progettato dallo stesso ufficio progetti Morandi di Roma.
Eravamo nel 1969 e il Morandi di Genova aveva già vissuto la magia dell’ora ics inaugurale alla presenza della massima autorità dello stato, il presidente della repubblica, Giuseppe Saragat.
Non racconto delle iperboli spese per l’occasione.
E d’altronde, l’euforia era giustificata per un Paese che aveva sormontato l’umiliazione della guerra perduta e riacquistato un posto dignitoso nel consesso internazionale.
Il progresso.
Già, il progresso. E senza limiti per un destino che ci sembrava foriero di un nuovo e più avanzato progresso civile e democratico.
Ho letto, sul più prestigioso quotidiano svizzero, NZZ, alcuni dati tecnici che meritano l’attenzione della politica e di tutti noi, chiamati, nei rispettivi ruoli, alla guida della cosa pubblica.
Sul ponte Morandi crollato circolavano ogni giorno 70.000 (settantamila) veicoli privati o pubblici leggeri e oltre 1500 (mille cinquecento) Tir con una capacità massima di carico di 46 tonnellate.
Da un calcolo approssimativo si può dedurre un traffico di oltre 20 milioni di veicoli leggeri e 400 mila Tir all’anno su una struttura costruita, presumo, negli anni 60-70 con tutte le norme di sicurezza previste allora. Partecipai, nei primi anni ’70, all’inaugurazione del ponte di Wadi Al-Kuf e non vi dico la poetica circolazione araba in vacanza, mogli e figlioli al seguito, per la foto ricordo.
Mi è giunta notizia della definitiva chiusura del ponte in Cirenaica.
Il dramma di Genova ha fatto scuola.
Mi domando: è possibile, dopo il dramma, ipotizzare un’altra cultura dello sviluppo che salvaguardi la natura, protegga l’ambiente e la salute delle persone che vivono nelle nostre città?
Il ponte ligure e l’Ilva di Taranto non sono forse un ammonimento a invertire la rotta?
Ma poi: perché ricostruire quel ponte pur con tutto il rispetto per il grande architetto genovese Renzo Piano?
Si parla, in queste ore, della possibile ricostruzione e riapertura, in pochi mesi, di una preesistente linea ferroviaria, poi abbandonata, (perché?) per allievare il blocco del traffico in seguito al crollo. Nonché dell’accelerazione della costruzione – una galleria di 15 chilometri – del canale di gronda.
Due ipotesi per guardare oltre e assicurare una nuova prospettiva a Genova , al suo porto, ai suoi abitanti.
Dal dramma della metropoli mediterranea alla comica dei 49 milioni di fondi pubblici che la lega di Matteo Salvini deve restituire allo Stato. L’irresponsabile gioco al rimpallo delle responsabilità. Era roba di Bossi e Belsito. E chi più ne ha, più ne metta. Finalmente tutto si è risolto con la presa d’atto della responsabilità collettiva del gruppo dirigente della lega.
Ammessa la colpa trovato il rimedio.
49 milioni da restituire (decisione giudiziaria) in circa ottanta anni e senza interessi. Ho letto la notizia ripetutamente perché mi appariva incredibile. Seicentomila ogni anno. Cinquantamila al mese. Mille cinquecento al giorno da addebitare (parole del capo) ai 180 parlamentari della lega.
Per ognuno di loro (poveretti!) otto Euro di sovrattassa giornaliera cash, imposti dall’inflessibile condottiero.
La mia solidarietà ai parlamentari della lega. Spremuta, cappuccino e cornetto, per il risveglio del mattino, sacrificati alla causa.
Oltre le alpi si chiama donazione della refurtiva dopo il furto.
E se nessuno si scandalizza, peggio per loro.
In questo caso si può dire che, nell’arco di poche settimane, si è passati dal dramma della città della lanterna, con i suoi lutti e travagli, alla piccola commedia di ogni quotidianità tipicamente italiana, nonché alla beffa di una volgarità senza limiti.
Francia o Spagna purché si magna.
Il popolo, attonito, non commenta.
Al Vittoriano, il milite ignoto, simbolo del sacrificio estremo per l’unità della Patria, piange sulla rovina morale, civile e umana della nostra Italia.