La globalizzazione è usata per giustificare, nel bene e nel male, qualsiasi atto o avvenimento di questo nostro mondo del ventunesimo secolo.
Se ne fa un uso e un abuso. Spesso senza un minimo di aderenza al problema che si vuole trattare. Viene usata alla luce delle migrazioni di massa, affrontando il fenomeno terroristico, ammantato da una menzognera matrice ideologica religiosa, o come grimaldello in mano alle popolazioni sottosviluppate del pianeta per dare l’assalto ai paesi ricchi dell’occidente.
In ogni tesi, naturalmente, giusta o sbagliata che sia, vi è sempre una parte di verità. Una parte, naturalmente. Che nasconde, spesso, una analisi finalizzata a promuovere interessi costituiti privati o pubblici, nazionali o multinazionali. La globalizzazione, almeno per quanto riguarda lo spostamento di milioni di uomini e donne, non è un fenomeno moderno. Avviene da quando esiste l’umanità e l’essere pensante ha vagato, sulla terra, alla ricerca dei luoghi più adatti al suo sostentamento e sviluppo. Arduo, in un articolo, descrivere le migrazioni all’interno del continente europeo e nelle zone adiacenti mediterranee
Migrazioni che sono state, oltretutto, l’atto costitutivo della stirpe italica nel corso degli ultimi due millenni. In seguito, dal sedicesimo secolo, dopo la scoperta del nuovo mondo, il 12 ottobre del 1492, le migrazioni di massa europee popolarono il continente americano, operando, nei decenni e nei secoli a venire, stermini e colonizzazioni brutali verso gli indigeni. Avvenne, il martirio, sul suolo del continente americano. E successivamente, nelle nuovissime terre australiane oceaniche. La schiavitù, lo sfruttamento e la conversione forzata al credo religioso imperante nell’allora occidente, fu opera nostra, delle nazioni europee, di cui , come potenti o prestatori di intelligenza – Cristoforo Colombo ! – abbiamo fatto parte e ne siamo stati protagonisti.
Nel corso dei tre secoli che hanno preceduto il nuovo millennio, sessanta milioni di abitanti della penisola italica hanno abbandonato la terra natia, dura e arcigna, alla ricerca di una vita meno povera e derelitta. E chi è là negli anni preserva ancora nella memoria l’emigrazione di massa del dopo guerra italiano.
Il paese usciva umiliato e sconfitto dall’avventura totalitaria. Riconquistata la perduta libertà, si scopriva nudo alla meta. Non rimaneva altra strada che la via dell’emigrazione, attraversando le alpi verso i paesi industrializzati del nord o verso le americhe, come usava dire, allora, del mondo al di là dell’oceano.
L’emigrazione nostra, se escludiamo la breve parentesi coloniale e fascista africana, non fu mai conquista brutale, fenomeno violento o strumento di dominio. Fu fuga dalla miseria, ricerca di nuove opportunità, occasione di contaminazione con altre civiltà, portatrice e apprendimento di valori su cui costruire le società che hanno favorito lo sviluppo e il progresso universali. Gli Stati Uniti d’America, ma non solo, ne sono, ora, l’esempio più eclatante.
E forse, i milioni in fuga dalle martoriate terre medio orientali, saranno domani i protagonisti di una nuova integrazione protagonista nel contesto dell’Unione europea. Lo speriamo per noi, per i nostri figli e per quelli che verranno. Nel frattempo, l’Italia, è confrontata al fenomeno migratorio da parte di tanti giovani a cui il nostro paese non ha saputo dare risposte positive. Centomila, nell’ultimo anno. Una parte, non dotata di particolari professionalità, accanto, tuttavia, a tanti giovani di alta formazione culturale e tecnica ai quali l’Italia ha fornito, investendo sul sapere, gli strumenti formativi senza poterne poi utilizzare le risorse, le conoscenze acquisite e umane.
Intendiamoci, la mobilità e gli spostamenti, favoriti dalla globalizzazione e dai processi politici unitari all’interno dell’Unione, sono, generalmente, positivi. Favoriscono lo scambio di nuove e inedite esperienze professionali e culturali e arricchiscono tutti. Lo sono, tuttavia, a condizione che non siano a senso unico, dall’Italia verso il mondo, come sta avvenendo, impoverendo il nostro paese di tante potenzialità. Creare le condizioni per superare le cause di declassamento della futura classe dirigente del nostro paese, in un mondo globalizzato dai potentati economici predominanti, è compito della politica: per il 2016 e gli anni che verranno.