Negli anni scorsi – ma anche oggi il fenomeno non accenna a diminuire – con lo sviluppo del filone del paranormale, si è dato appoggio al principale caposaldo della filosofia buddista: la reincarnazione.
In sostanza, c’è stato tutto un fiorire di letteratura che ha messo in evidenza come delle persone, senza mai essere state in un determinato posto, avevano la sensazione di esserci state, e di riconoscerne dettagli anche importanti. Di qui la tesi che quelle persone erano già state in quel posto in un’altra vita vissuta in un passato più o meno recente.
Normalmente, si dice, non c’è ricordo di vite precedentemente vissute, ma questi squarci di sensazioni e di memoria ne dimostrerebbero la realtà. Anni fa, su una rivista, c’era addirittura un modo per riuscire ad intravedere come si era in una delle vite precedenti: consisteva nel tenere una candela accesa all’altezza del viso, stando in piedi, in una stanza buia e silenziosa davanti ad uno specchio, per esempio di un armadio, e di guardare fisso nel punto tra gli occhi, alla radice del naso.
Dopo un certo tempo di fissazione, apparivano – o sarebbero dovute apparire – le fattezze del volto che il soggetto aveva avuto in una delle ultime vite. Va da sé che qualcosa si cominciava a vedere, ma più che un ponte con il passato, era un gioco di stanchezza e di riflesso, misto ad un desiderio di vedere assolutamente qualcosa.
Ora, si è scoperto che questo fenomeno non ha nulla né di paranormale, né di soprannaturale, ma ha semplicemente una spiegazione scientifica, illustrata da Antoni Rodriguez-Fornells, docente di Psicologia all’Università di Barcellona, in Spagna. Dichiara lo scienziato: “A tutti noi è capitato, almeno una volta nella vita, di avere la sensazione di essere già stati in un posto, di avere già vissuto un preciso momento della nostra esistenza o, addirittura, di sentire di prevedere quanto accadrà fra breve (…). Ebbene, possiamo finalmente spiegare scientificamente come si formano questi falsi ricordi, che sono il risultato di un’attività cerebrale intensa, capace di creare ponti e collegamenti tra aree del cervello, in particolare quelle che presiedono il linguaggio e la memoria. Per questo, a volte, una semplice parola basta a scatenare una sorta di tempesta cerebrale che genera una sensazione tanto potente da essere scambiata per un fatto realmente accaduto”. Come si è arrivati a dare una spiegazione a quello che in gergo si definisce il “déjà vu”? Premesso che ci sono persone che più di altre hanno certe caratteristiche ben precise, come per esempio la facoltà di vivere spesso situazioni in cui si provano sensazioni di “déjà vu” oppure che ricordano avvenimenti legati alla primissima infanzia, quando cioè la memoria non è ancora sviluppata del tutto, lo scienziato e i suoi collaboratori hanno effettuato un esperimento su 48 studenti che sono stati sottoposti a test per misurare la memoria e contemporaneamente ad un esame di tipo medico come la risonanza magnetica funzionale.
Quest’ultimo esame mostra quali aree del cervello si attivano mentre elaboriamo i pensieri.
Diamo la parola allo stesso professor Rodriguez-Fornells: “Abbiamo chiesto a ciascuno dei 48 studenti di memorizzare alcuni elenchi di parole dal significato simile o collegato tra loro. Per esempio, in uno di questi elenchi comparivano quattordici parole tra cui “divano”, “sgabello”, “poltrona”, ma mancava un termine: “sedia”.
Quando poi abbiamo invitato i ragazzi a ripetere quante più parole ricordavano di quell’elenco, ci siamo trovati di fronte ad un risultato interessante: molti di loro, tra le parole memorizzate, riportavano anche il termine “sedia” che, invece non figurava nell’elenco fornito.
A questo punto dovevamo giustificare in modo scientifico perché erano tanti gli studenti che avevano commesso lo stesso errore. Riteniamo che la mente umana non memorizzi le singole parole, ma che le associ in gruppi. Così, nel momento in cui si è chiamati a ripetere quanto si è memorizzato, non si ripete esattamente quello che si è visto, bensì quello che si è creduto di vedere. In pratica, l’idea della sedia era talmente collegata alle altre parole di significato simile che il cervello della maggior parte degli studenti sottoposti a test reputava impossibile che fosse stata esclusa dall’elenco.
Poi abbiamo monitorato l’attività cerebrale degli studenti che avevano creato il falso ricordo della parola “sedia” nell’elenco e abbiamo notato un tratto comune, a livello cerebrale: questi studenti possiedono una capacità di connessione tra differenti aree del cervello ben sviluppata, specialmente tra l’area legata alla memoria e quella del linguaggio”.
Insomma, un primo risultato evidente è che esiste un legame tra la memoria e il linguaggio e un secondo è che non esiste ricordo senza le parole per esprimerlo, quindi che “le parole possono evocare i ricordi. E se anche sono falsi, comunque si fissano in modo indelebile nella mente. In pratica, avviene una sorta di alleanza tra parola e ricordo, che può generare un cortocircuito. In questi casi, un racconto sentito da bambini, un’immagine vista in una fotografia, un’associazione di idee, con il tempo, diventano ricordi di vita vissuta, che affiorano nella mente appena viviamo circostanze simili”.
Esiste dunque la convinzione di avere già vissuto un evento o visitato un luogo pur non avendolo mai fatto realmente. Nessuna vita precedente, dunque, ma solo un cortocircuito tra diverse aree del cervello.